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presunzione d'innocenza
La donna era ai domiciliari, l’allora magistrato di sorveglianza di Brescia le aveva negato il permesso per andare in ospedale a interrompere la gravidanza. Lo aveva fatto per obiezione di coscienza. Per questo è stato censurato dal Csm per la sua condotta che aveva anche danneggiato la donna. Ora la Cassazione, con la sentenza numero 3780, conferma tale decisione. Ripercorriamo i fatti. Il magistrato è stato sottoposto a procedimento disciplinare, perché nel 2012 ha respinto l’istanza della donna ai domiciliari che chiedeva di allontanarsi dall’abitazione per sottoporsi ad un intervento di interruzione volontaria di gravidanza. Il rigetto lo ha motivato con un provvedimento dal seguente tenore: «Non ravvisandosi i presupposti di cui l’articolo 284, comma 3, cod. proc. Pen., richiamato dall’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario». L'interruzione di gravidanza contraria ai suoi principi religiosi Secondo il capo di incolpazione tale motivazione sarebbe stata fondata su una interpretazione dell’articolo citato e palesemente in violazione di legge, strumentalizzata al fine di impedire alla donna di eseguire il programmato intervento che lo stesso riteneva non praticabile perché contrario ai suoi principi religiosi, così come reso palese dal successivo provvedimento, adottato su nuova istanza della detenuta , con il quale il magistrato rimetteva il fascicolo alla presidente della Sezione con la seguente motivazione: «(…) ritendendo questo magistrato di astenersi dall’emissione del richiesto provvedimento per ragioni di coscienza e ritenendo che il diritto all’obiezione di coscienza debba essere riconosciuto anche agli appartenenti all’ordine giudiziario (stante la particolare ristrettezza dei tempi non è possibile sollevare la questione di legittimità costituzionale». Il magistrato, quindi, è stato incolpato di vari illeciti. Nel capo di incolpazione si legge che il magistrato, violando i doveri di imparzialità, correttezza, equilibrio e rispetto della dignità della persona di cui all’articolo 1 del decreto legislativo numero 109 del 2006, avrebbe arrecato grave discredito sia all’istituzione giudiziaria che alla donna con un ingiusto danno: quest’ultima si è vista costretta a riproporre l’istanza e di rinviare l‘intervento chirurgico in una data assai prossima alla scadenza dei novanta giorni entro i quali poter praticare l’intervento. La sentenza del Csm confermata anche dalla Cassazione Con la sentenza depositata il 22 luglio scorso, la sezione disciplinare del Csm ha dichiarato l’allora magistrato di sorveglianza di Brescia, responsabile degli illeciti e gli ha inflitto la sanzione disciplinare della censura. Sempre la sezione disciplinare, dopo aver premesso che la richiesta della donna era senz’altro intesa ad ottenere l’autorizzazione a recarsi fuori dal luogo della detenzione domiciliare per sottoporsi a trattamento di interruzione volontaria della gravidanza, ha osservato che le ragioni oggettive della richiesta rientrano sicuramente tra quelle indispensabili esigenze di vita la cui sussistenza consente l’autorizzazione ad assentarsi dal luogo di detenzione domiciliare per il tempo necessario ad assentarsi dal luogo di detenzione domiciliare per il tempo necessario a provvedere alla loro soddisfazione. Il magistrato ha quindi fatto ricorso in Cassazione. Il pubblico ministero, opponendosi al ricorso, nelle sue conclusioni scritte sottolinea che la scelta di ricorrere all’aborto, è «un diritto personalissimo che non tollera limitazioni a causa dello stato di detenzione». La Cassazione ha rigettato il ricorso confermando la censura posta dal Csm. Per la Corte suprema, il magistrato di sorveglianza - sostenendo che non c’erano i presupposti per accogliere la richiesta -, aveva, di fatto, escluso che l’interruzione di gravidanza potesse rientrare tra le indispensabili esigenze di vita che consentono di lasciare “a tempo” i domiciliari o il carcere. Sia i probi viri sia la Cassazione chiariscono che la nozione di indispensabili esigenze di vita non va intesa solo in senso materiale ed economico, ma letta come una tutela dei diritti fondamentali della persona. Sì, perché la donna, a causa del magistrato di sorveglianza, ha dovuto rinviare ulteriormente la data dell’operazione e ciò – come si legge nelle osservazioni della sezione disciplinare del Csm - è «disagevole sotto il profilo psicologico e fisico per ogni donna, tanto più questa versa in condizioni di detenzione».