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La madre era in fin di vita, per questo ha fatto istanza al magistrato di sorveglianza per poterla abbracciare l’ultima volta. Ma nella stessa giornata la madre muore, il giorno successivo il magistrato rigetta per decesso sopravvenuto. A quel punto fa istanza per partecipare al funerale. Rigettata per il rischio Covid. Non solo. Fa istanza per una attività di lavoro esterno. Anche in questo caso il magistrato rigetta.
Si chiama Vincenzo e non è un detenuto. Un caso segnalato dall’associazione Yairaiha Onlus. È un internato presso il carcere di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena. Un uomo che aveva finito di scontare la sua pena, ma è stato raggiunto da una misura di sicurezza presso il carcere, adibito anche come “casa lavoro”. Ma di fatto, come tutti gli internati, si trova in una situazione peggiore dei detenuti.
Il caso di Vincenzo è emblematico. Non solo è di fatto un ristretto nonostante l’espiazione della pena, ma gli viene vietato il funerale della madre con la scusa del Covid. Così come gli viene vietata l’attività lavorativa esterna da svolgersi con l'accompagnamento del titolare della ditta per cui lavora così come prescritto anche dall'ordinanza di proroga dell'internamento in casa lavoro.
Ad oggi, secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria risalenti al mese scorso, ci sono 305 internati. Centinaia di persone che restano nel circuito penale pur avendo scontato la pena. Senza casa, lavoro, prospettiva. Le “Case lavoro” nella maggior parte dei casi non funzionano. Sono persone che ancora vengono considerate “socialmente pericolose” e quindi raggiunte da una misura di sicurezza. Si tratta del doppio binario ideato durante il regime fascista e mai riformato.
Ritornando al caso dell’internato Vincenzo presso il carcere di Castelfranco Emilia, interviene Sandra Berardi, la presidente dell’associazione Yairaiha che ha segnalato l’episodio: «Riteniamo assurde le motivazioni di questi rigetti, in particolare il rigetto a poter partecipare al funerale della madre basato sul rischio contagio Covid ci sembra una presa in giro visto che non siamo più in lockdown e tutte le attività sono riprese regolarmente tranne che nelle carceri dove con la scusa dell'emergenza Covid, da ormai 17 mesi, si è data la stura ad una chiusura totale dei rapporti con la comunità esterna quasi a voler estendere il regime di 41 bis a tutta la popolazione detenuta».
Prosegue la presidente dell’associazione: «Del resto anche il rigetto dell'istanza per l'attività esterna rappresenta la vanificazione dei percorsi di reinserimento prescritti dall'art. 27 della Costituzione. Riteniamo le case lavoro un regime detentivo a tutti gli effetti gravato da una arbitrarietà ulteriore rispetto agli istituti di pena che, di fatto, limita l'esercizio dei diritti delle persone ristrette e rischia di prorogare la detenzione per molto tempo. Non a caso la collocazione nelle case lavoro è stata definita “ergastolo bianco” e ci sembra paradossale che continuino ad esistere in un momento in cui le misure alternative dovrebbero essere favorite».
Eppure, eravamo a un passo dal ridimensionamento del sistema del doppio binario. Parliamo della riforma dell’ordinamento penitenziario contenuta nella legge delega del 2017, promossa dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. Come sappiamo, con l’avvento del governo giallo verde, la riforma è stata approvata dimezzandone i contenuti. La legge delega, basata sul lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, puntava a un considerevole ridimensionamento, a vantaggio di misure a carattere riabilitativo e terapeutico e del minor sacrificio possibile della libertà personale. Nulla di tutto questo. Il tema sembra essere stato abbandonato, non viene preso in considerazione nemmeno dall’attuale governo.
Il caso di Vincenzo dovrebbe aiutare a riflettere almeno sul superamento dell’esperienza delle cosiddette “case di lavoro”, costituite in numero limitato e come tali irrispettose del principio di territorialità dell’esecuzione delle misure di sicurezza, nelle quali la previsione dell'obbligo del lavoro come strumento per arrivare al reinserimento sociale si è rivelato, nella realtà, fittizio, mancando progetti di lavoro effettivo e remunerato. La conseguenza è che le “case di lavoro” si sono trasformate a tutti gli effetti in misure di sicurezza detentive e puntualmente prorogate.