Si contano le macerie. Le osservano i padri della repubblica giudiziaria: Legnini, vicepresidente del Csm; Canzio, primo presidente di Cassazione; Orlando, ministro della Giustizia. Ascoltano, rileggono, stropicciano l’intervista di Piergiorgio Morosini al Foglio. Dentro c’è tutto quello che la magistratura non dovrebbe mostrare: invadenza nei confronti della politica, eccessiva disinvoltura di giudizio, confusione tra le funzioni e i poteri dello Stato. È il giovedì nero dei giudici, aperto dalle parole dell’ex gip palermitano (romagnolo d’origine) che Morosini stesso smentisce quando è ormai tardi. È anche il giorno in cui i botti dell’inchiesta di Lodi bruciano le mani agli artificieri che dovrebbero controllarne le esplosioni, le toghe appunto. Saltano fuori gli errori, le prese di distanza sulle decisioni della Procura lombarda e del gip, che hanno sancito la custodia cautelare per il sindaco Uggetti.Un provvedimento censurato da Beppe Fanfani, consigliere laico del Csm e avvocato di area Pd, ma anche da un nume tuitelare dell’associazionismo giudiziario come Vittorio Borraccetti, già segretario di Md, la corrente di Morosini. Non si poteva mettere in galera un indagato per turbativa d’asta, è il sussurro impietoso. Che il plenum non può respingere.Siamo a metà mattina, al Consiglio superiore della magistratura corrono vibrazioni telluriche. La parte togata teme le conseguenze di quel titolo con cui il Foglio incornicia il colloquio tra Morosini e Annalisa Chrico: Perché Renzi va fermato. Si parla del referendum, e dell’impegno di Magistratura democratica nel comitato per il no. Ma a due giorni dagli arresti di Lodi il senso è inevitabilmente un altro, il senso percepito si direbbe, come le temperature estive che sfondano il limite dei 40: Renzi va fermato con le manette ai polsi dei suoi sindaci, dei segretari regionali dem come Renato Soru. Ecco cosa capiranno gli spettatori della corrida mediatica, temono i consiglieri in cammino verso la sala del plenum. Il giornale diretto da Cerasa parla di Riforme, ma il doppio senso è più forte di tutto.Accade il prevedibile: il vicepresidente Giovanni Legnini si alza e annuncia «l’incontro formale chiestomi dal ministro della Giustizia per avere chiarimenti sulla vicenda», ovvero sulle parole del consigliere Morosini. In quanto guardasigilli, a Orlando compete l’azione disciplinare nei confronti dei giudici. Lui stesso, il responsabile della Giustizia nel governo, dirà di lì a poco di aver sollecitato l’incontro con Legnini «perché se alcune di quelle parole e di quelle espressioni  (sempre di Morosini, nda)  risultassero confermate, sarebbero in aperto contrasto con lo spirito di lealissima collaborazione che fin qui ha ispirato i rapporti tra governo e Csm». Orlando lascia trapelare quasi rabbia. Da due anni, da quando è a via Arenula, predica il dialogo. Si dissocia col silenzio dai “brr... che paura” di Renzi, ridimensiona l’offesa della nuova responsabilità civile, lascia che il Csm prenda prima di lui la parola sul sistema per eleggere i giudici al Csm. Fa insomma tutto quello che può fare un ministro della mediazione. Eppure l’impero togato si sbricola sotto i suoi occhi inermi.Non basta. La sentenza più grave spetta al “primo magistrato del Paese”, detta con barocca enfasi, il primo presidente di Cassazione Giovanni Canzio. Anche lui siede al plenum, di diritt. Canzio è asciutto, orgogliosamente campano nella cadenza, e implacabile: «C’è profonda delusione, non è stato ascoltato l’appello all’osservanza dei doveri di riservatezza, discrezione, sobrietà nei rapporti con i media». Ancora, Canzio dichiara «totale dissenso nel merito dei giudizi espressi nell’intervista». Canzio, l’alto magistrato fuori dalle Correnti, personifica la nemesi che si abbatte sull’associazionismo giudiziario.E Legnini? L’avvocato abruzzese vicepresidente del Consiglio sta lì perché il rapporto tra politica e magistratura si svolga senza scosse. Anche lui è uomo con la vocazione a mediare, ma non può trattenersi dal dire che il patto di rispetto istituzionale è infranto, soprattutto perché Morosini si è messo in campagna elettorale contro il premier. Aveva già suonato l’allarme dopo l’intervista di Davigo al Corriere. Inutilmente.Ecco, peggio di così non si potrebbe. Più divisa di così la magistratura non potrebbe essere, più straziato che come al plenum di ieri mattina il Csm non potrebbe mostrarsi, le parole di Canzio sono una scudisciata che lascia sangue. Morosini prova a difendsersi, confessa che le «parole» riportate dal Foglio, «travisano il senso di un colloquio informale partito con l’esclusione da parte mia di rendere dichiarazioni pubbliche». Parole confidenziali, ma pesantissime, dette a una giornalista d’inchiesta. Qui l’impero togato confessa di non sapersi fare Stato, politica, partito. E perciò ammette di essere crollato, per come lo abbiamo conosciuto finora.