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Dontae Sharpe
E' l’ 11 febbraio 1994, sono le 21.30, un uomo, George Radcliffe, viene ucciso con un colpo di pistola a Grenville, Carolina del nord. La polizia indaga brevemente e in carcere finisce un ragazzo afroamericano di 18 anni, Dontae Sharpe. La sentenza comminata a seguito del processo è implacabile: ergastolo. Da questo momento in poi per Sharpe inizia un calvario giudiziario che durerà fino al 2019 quando viene scarcerato. Il ragazzo ha sempre sostenuto la sua innocenza e nel corso degli anni è emerso che l’accusa si è basata su testimonianze ritrattate o inattendibili e che uno degli investigatori ha tentato di incastrare Sharpe ad ogni costo.
Liberato nel 2019 Sharpe ha iniziato una dura battaglia per ottenere quella che per la Costituzione dello Stato della Carolina del nord è il cosiddetto “perdono d’innocenza”. Il governatore, in questo caso Roy Cooper, ha la facoltà di decidere per tre tipi di “grazia”: perdono semplice, d’innocenza e incondizionata. Senza questo tipo di atto, nonostante la fine della detenzione durata più di un quarto di secolo, Sharpe non può riscuotere i 50mila dollari all’anno ( per un massimo di 750mila) che fungono da risarcimento per l’ingiusta detenzione, così come non possono essere distrutte le false prove a suo carico e il dna raccolto durante l’indagine.
Il caso dunque travalica le normali procedure giudiziarie ed assume il carattere di una vendetta da parte di una giustizia che non ammette di aver sbagliato o che forse fin dall’inizio è stata viziata da pregiudizio razziale. Una petizione per il “perdono d’innocenza” infatti è stata consegnata dalle organizzazioni che sostengono Sharpe (Naacp, Forward Justice) nel 2019 ma ancora il governatore non ha voluto esprimersi. Nonostante il caso Floyd e gli altri venuti alla ribalta la strada per un corretto comportamento di giudici e giurie è ancora in salita.
D’altro canto recenti dati forniti dal Registro nazionale delle scarcerazioni dimostrano che gli afroamericani costituiscono solo il 13% della popolazione statunitense, ma sono il 47% delle 1.900 scarcerazioni annue per ingiusta detenzione. Solo il 15% circa degli omicidi da parte di afroamericani coinvolge vittime bianche, ma il 31% dei “neri” scagionati per omicidio è stato condannato per aver ucciso persone bianche. Un afroamericano per vedere riconosciuta la sua innocenza deve aspettare 14 anni di media, un bianco 11.
La condanna di Sharpe era stata quasi preordinata: una delle testimoni oculari, Charlene Johnson all’epoca tredicenne, inizialmente si rifiutò di venire al processo e testimoniare; la polizia l'ha arrestata e portata in tribunale perché tossicodipendente. La Johnson però ritrattò e anni dopo ammise di aver ricevuto 500 dollari per il suo racconto dimostratosi ampiamente falso fin nei minimi dettagli.
Un’altra testimone, Beatrice Stokes, aveva affermato di aver visto una rissa e poi la scintilla scaturita da una pistola. Si è fermata prima di dire che Sharpe aveva sparato un colpo e non l'ha mai identificato come l'assassino. Anch’essa era una tossicodipendente quasi certamente sotto l’effetto di sostanze al momento dell’episodio e allo stesso modo ha sconfessato le sue parole seppure dopo 20 anni grazie ad un investigatore assunto dalla difesa dell’accusato.
Tra l’altro la Polizia, incredibilmente, non ha mai trascritto i suoi interrogatori. Insomma nessuna prova fisica collegava Sharpe all’omicidio ma nonostante ciò fu condannato all’ergastolo. Particolarmente opaca è poi la figura del detective Ricky Best che fin da subito ha assunto un ruolo “paterno” nei confronti della testimone Johnson preoccupandosi per lei e la sua famiglia anche in termini economici.
Al momento della ritrattazione la ragazza ha affermato che Best avrebbe più volte detto: «Non posso prenderlo per droga, ma posso prenderlo per omicidio». Inoltre è anche apparsa l’evidenza che la Polizia non ha voluto ascoltare chi ha riferito di altri possibili sospetti o persone che potevano fornire alibi al ragazzo.
Negli anni successivi alla condanna, sul caso è stata prodotta anche una mini serie, un legal drama titolato Appello finale”, tanto da suscitare l’interesse di diversi avvocati impegnati per i diritti civili tra cui quelli della Wrongful Convictions Clinic della Duke Law School e l'Innocence Project, i cui sforzi hanno portato un giudice federale a ritenere innocente il loro cliente nel 2010. Ma poco dopo, senza spiegazioni la decisione è stata annullata dalla Corte di Appello del 4th US Circuit e Sharpe è così rimasto in carcere fino al 2019, fino al momento in cui la dottoressa Mary Gilliland, un ex medico legale che aveva partecipato al processo cambiò la sua precedente perizia balistica sul tragitto del proiettile che aveva ucciso Radcliffe.