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Si continua a morire nelle carceri italiane, sia per cause naturali che per suicidio. Venerdì scorso, nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, si suicidato il 46esimo detenuto. Si chiamava Gaetano Della Monica, 45 anni, recluso per avere organizzato decine di falsi matrimoni per far ottenere la cittadinanza a stranieri clandestini. Era stato trovato con la testa dentro una busta vicino al tubo del gas del fornellino portatile della cella. Quando il suo compagno si è svegliato e ha dato l’allarme, Gaetano era già cadavere. Questo è il secondo suicidio dall’inizio di questo mese. Il primo era avvenuto il 3 ottobre sempre in un carcere campano, ma a Poggioreale. Si chiamava Massimiliano Marcello, 39 anni, e si era ucciso impiccandosi. La sua vicenda è emblematica, perché viene inquadrata del discorso della salute mentale e fisica. Massimiliano, infatti, presentava delle condizioni psicofisiche precarie. A dimostrarlo è il certificato medico firmato dal dottore che lo aveva visitato. «Le condizioni fisiche e psichiche del signor Marcello appaiono in fase di peggioramento – si legge nel certificato -, sia sotto il profilo del tono dell’umore, sia sul versante somatico in quanto il paziente ha nel frattempo perso almeno 20 chili, a causa di una condizione anoressica, che peraltro non emerge dalla lettura della cartella clinica. Egli è infatti passato da un peso di circa 92 chili all’attuale peso di 71 chili, perdendo gran parte della massa muscolare. Si tratta di una perdita di peso di circa il 20%, realizzatasi molto rapidamente nell’arco di 5 mesi». In pratica stava male e aveva una condizione psichica e fisica incompatibile con il carcere, tant’è vero che era stato chiesto al Tribunale del riesame di sospendere il regime carcerario. Ma i tempi, come accade di frequente, si erano allungati. Marcello ha deciso di uscire da solo dal carcere, ma in una bara.
In carcere ci sono diversi modi per suicidarsi. Con un sacchetto in testa, una sniffata al gas delle bombolette del cucinino, un laccio di scarpa, una felpa, una cintura, una striscia di lenzuolo o di jeans stretta al collo, un taglio in gola, le vene dei polsi squarciate. Suicidi che sono aumentati rispetto al passato. Nel decennio 2000- 2009, secondo una ricerca, i suicidi nelle carceri italiane sono stati 568, mentre nel decennio 1960- 1969 furono 'appena' cento, rispetto a una popolazione carceraria di circa la metà dell’attuale. In percentuale, dunque, la frequenza è aumentata del 300 per cento. Rispetto a 40 anni fa i detenuti erano prevalentemente criminali ' professionisti', mentre oggi la maggior parte dei carcerati è costituita da emarginati, tossicomani, immigrati sans papiers, malati mentali. Tutte tipologie di detenuti che, forse, dovrebbero avere una pena alternativa alla detenzione. Tuttora preoccupante – come si legge anche nel recente dossier del Senato - è pure l’incidenza dei fenomeni di autolesionismo ( 8.540 casi nel 2016 e 1.262 nei primi due mesi del 2017), dei suicidi tentati ( 1.006 nel 2016 e 140 a inizio 2017) e compiuti ( 40 nel 2016 e 12 nei primi 57 giorni del 2017): un tasso che, negli istituti di reclusione, è 12 volte più alto che all’esterno, tanto da sollecitare la definizione di un Piano nazionale di intervento per la prevenzione dei suicidi in carcere.
Non mancano, però, anche dei dubbi su alcune morte archiviate come suicidi. In alcuni casi, infatti, i cadaveri ritrovati impiccati hanno presentato lesioni nel corpo che poco hanno a che vedere con la modalità del suicidio. Però, appunto, parliamo di casi archiviati. Non esiste, finora, nessuna sentenza giudiziaria che parla di omicidi mascherati da suicidi. Un caso, per un pelo, “rischiava” di arrivare a una sentenza definitiva di questo tipo. La peculiarità di questa storia è che si era arrivati a due sentenze contrapposte. Parliamo della morte di Marco Erittu. Si tratta di un detenuto ritrovato, senza vita e con un sacchetto di plastica infilato in testa, nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. Una verità è emersa nel 2011, grazie a un pentito, Giuseppe Bigella, che, con le sue rivelazioni, ha portato all’arresto di un agente e di due detenuti. Secondo le sue accuse, il primo avrebbe aperta la porta della cella per consentire agli altri due di entrare e uccidere Erittu. Il poliziotto, dopo l’omicidio, avrebbe richiuso la cella e così la morte del detenuto fu archiviata come suicidio. Il processo si è concluso con due verità: il gup di Sassari ha creduto al pentito che si è autoaccusato e lo ha condannato a 14 anni di carcere, mente la corte d’Assise di Sassari ha stabilito che Marco Erittu non è stato ucciso assolvendo i coimputati di Bigella. Così abbiamo un assassino - o sedicente tale - reo confesso che sta scontando la pena inflittagli da un gup per un delitto avvenuto in una cella che, per una corte d’Assise, non è mai stato commesso.