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«Se i giovani sono violenti è perché soffrono la mancanza di affettività. I ragazzini più deboli diventano meteore impazzite, sui quali nessuno vuole avere controllo, salvo quando aggrediscono in maniera così lampante». Gaetano Di Vaio oggi è produttore cinematografico di successo, un successo raggiunto passando per l’inferno della povertà e del carcere. Fino alla rinascita, a Poggioreale, grazie ad un incontro che gli ha aperto le porte su un mondo nuovo e prima sconosciuto. Nasce da qui il suo sguardo lucido, una lente di ingrandimento sui fenomeni sociali e sulla violenza che serpeggia tra i più giovani, destabilizzati dai modelli negativi «propinati dalla politica». La società, racconta al Dubbio, «è incapace di interagire con quei ragazzi».
Parliamo di baby gang: come se le spiega?
È un fenomeno trasversale, che colpisce ovunque e qualsiasi ceto sociale, anche se Napoli attira di più i media. Il problema è la rete sociale: quando salta, in un momento in cui i media e i social diventano più selvaggi, i ragazzi più deboli e senza strumenti diventano meteore impazzite, di cui a nessuno importa, tranne quando succedono cose eclatanti. Dove c’è maggiore disagio sociale e familiare ti ritrovi in questo tipo di situazione.
Si dà la colpa a modelli considerati negativi, come la serie “Gomorra”. Quanto c’è di vero in questa analisi?
L’efferatezza che vedo in questi ragazzini nasce ben prima della serie. Chi si giustifica così non vuole evidentemente assumersi responsabilità. Il vero problema sta nei modelli totalmente devianti che vengono diffusi. La realtà è molto più cruda di Gomorra e mi preoccupano di più cose come “Uomini e donne”, perché viene inculcato il culto dell’apparire. Ho a che fare con i ragazzi tutti i giorni e usano le frasi del film in modo ironico. Volete censurarlo? Prima eliminate ciò che è diseducativo.
Si riferisce alla politica?
Certo, il Governo è come un padre di famiglia. Se la politica non comunica con i ragazzi è un disastro. I giovani di oggi non hanno un modello positivo, i politici che sentono parlare in televisione trasmettono tutto tranne che valori positivi. Non è che i ragazzi sono degli imbecilli. Anche lo stesso Saviano, che fa il divo anticamorra, non parla al loro cuore ma al cervello di una borghesia reazionaria. Ma è a loro che dobbiamo parlare e a chi ha voglia di cambiare le cose. Io ero un suo grande sostenitore ma ormai mi scoccio a sentirlo parlare. Per come si pone, perché lui poteva essere un faro e non lo è.
Il mondo della comunicazione e la scuola hanno delle responsabilità?
Basta vedere i servizi sulle baby gang: è terrorismo, non si può utilizzare bambini così piccoli in quel modo, facendoli parlare e sentire così più esaltati quando si rivedono “coraggiosi” a casa in tv. Quando vedi Gomorra tu sai che è finzione a tutti gli effetti, quando vedi quel tipo di servizio tu sai che è realtà. È un’aggressione mediatica, più grave di quella fisica. La scuola poi non è in grado di stare dietro ai fenomeni, anzi li genera pure, perché tende ad allontanare questi ragazzi anziché accoglierli. Così nascono i complessi. I ragazzi più disagiati sono messi ai margini, sono respinti. Loro lo avvertono e trasformano tutto questo in aggressività. Le vere gang sono gli adulti, non i bambini.
Parliamo della sua storia: com’è finito in carcere e come ne è uscito?
Quello che mi ha portato in prigione da bambino è stata la povertà. I primi sette anni della mia vita sono stato quasi sempre lontano dalla mia famiglia: erano poveri e pensavano che dentro un istituto avrei potuto studiare. Invece lì dentro, 400 bambini per istituto, tutti poveri, subivamo violenze. Non ci stavo bene e così scappavo. Dormivo per strada e per vivere ho cominciato a rubare. La prima volta in carcere è stata invece a 17 anni, per un furto d’auto. Ci sono rimasto tre mesi. Dentro facevamo delle attività, io mi ero molto fissato con l’informatica e speravo di poter approfondire fuori ma una volta uscito tornavi ad essere solo. Non avevo riferimenti e così, una volta fuori, sono andato al tribunale dei minori, chiedendo aiuto. Ma i servizi sociali mi dissero che non ero più di loro competenza. Mi sono detto: ma com’è, nun ce sta’ speranza, allora? Vidi il buio ed è una cosa che non posso dimenticare.
Quindi tornò sulla strada.
Divenni il leader di una piazza di spaccio, facevo rapine, furti. Tornai in carcere e passai 3 anni e 5 mesi in prigione, poi altri 3 in affidamento in prova ai servizi sociali.
Cosa cambiò la sua vita?
Un incontro a Poggioreale con un detenuto, avevo 23 anni. Era innocente e stava sempre in disparte, a leggere. Io avevo la quinta elementare, non avevo studiato ma lui mi incuriosiva. Nacque un grande rapporto di amicizia che mi ha fornito degli strumenti culturali che una volta uscito si sono rivelati fondamentali per affrontare la realtà quotidiana a Scampia. Credo di aver retto il carcere proprio per quell’incontro, così come ha aiutato questa persona a sopportare la galera da innocente. È costata tanta fatica ma è andata bene. Poi ho incontrato l’arte e tutto è cambiato.
La soluzione sta nella cultura quindi?
Se hai strumenti culturali anche da povero puoi liberarti di una situazione che è prima di tutto mentale e poi diventa in materiale. Spesso però la povertà non c’entra, c’è la solitudine. Non serve per forza il papà in prigione, c’è un disagio enorme che i ragazzi riescono ad esprimere in gruppo. Aggrediscono per esistere.
Qual è la soluzione?
Serve giustizia sociale. Ma soprattutto, è importante che i governi tornino ad un modello educativo positivo, cancellando la pornografia del consumo. Questo è il telefilm più spaventoso.