Con la firma del presidente Sergio Mattarella e la conseguente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale venerdì scorso, entra in vigore il decreto- legge “Sicurezza”, che introduce modifiche rilevanti anche nel sistema penale, in particolare per le donne incinte e le madri con figli piccoli. Tra le novità più discusse, la fine del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per queste categorie e l’obbligo di detenzione negli Icam (Istituti a Custodia Attenuata per Madri). Un cambiamento che solleva numerosi interrogativi. Il carcere potrebbe aprirsi con maggiore frequenza alle donne incinte o madri di figli di età inferiore a tre anni, anche a causa del numero limitato di Icam, senza previsioni di incremento. Inoltre, non viene valorizzata l’opzione delle case famiglia protette, le quali evitano l’impatto detentivo sui bambini piccoli.

Il decreto, pubblicato in Gazzetta, si concentra sull’articolo 15, che modifica il codice penale e quello di procedura penale. Prima della riforma, l’articolo 146 del codice penale imponeva il rinvio obbligatorio della pena per le donne incinte o madri di figli sotto l’anno, salvo casi di «eccezionale rilevanza», privilegiando gli Icam. Ora quel rinvio diventa facoltativo: il giudice potrà negarlo se sussiste il rischio di «commissione di ulteriori delitti» o di «grave pregiudizio alla crescita del minore» ( ad esempio, in presenza di comportamenti dannosi).

Per i figli tra 1 e 3 anni, il decreto introduce una nuova categoria (art. 147, n. 3- bis): il rinvio è possibile solo in assenza di pericoli, mentre la detenzione in Icam sarà ammessa solo se le «esigenze di eccezionale rilevanza» lo consentono. Per le madri con figli sotto l’anno, invece, la detenzione in Icam diventa obbligatoria, salvo casi di evasioni o condotte pericolose (art. 276- bis c. p. p.), situazioni in cui la madre viene trasferita in carcere, separata dal figlio salvo «preminente interesse del minore».

Prima del decreto, il sistema offriva maggio protezione. La legge impediva l’esecuzione automatica della pena in caso di gravidanza o per madri con figli sotto l’anno, riservando il carcere solo in situazioni eccezionali. Le donne non venivano semplicemente rinviate alla pena, ma tutelate con meccanismi specifici: la custodia cautelare era affidata agli Icam, strutture create nel 2011 per madri con bambini fino a sei anni, oppure si ricorreva a soluzioni alternative come il ricovero in case famiglia ( luoghi più idonei, ma attualmente poco valorizzati) o la detenzione domiciliare. Inoltre, la normativa permetteva alle madri detenute di mantenere un contatto diretto con i figli fino a tre anni, con la possibilità di scontare una parte della pena in ambienti pensati per attenuare l’esperienza detentiva.

Con il nuovo decreto questa tutela si riduce nettamente. Il rinvio dell’esecuzione della pena non è più un diritto automatico, ma dipende da condizioni più restrittive. L’intervento del presidente Mattarella ha ripristinato almeno l’obbligatorietà sul fatto che l’eventuale custodia cautelare per le donne indagate o imputate con figli al seguito, sia eseguita obbligatoriamente in un istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) se i bambini e le bambine hanno un’età inferiore a un anno, mentre per le madri di bambini e bambine di età tra gli uno e i tre anni la pena potrà essere eseguita, in alcuni casi, anche in carcere.

Sebbene il decreto imponga che l’esecuzione debba avvenire in un Icam per le detenute con figli sotto l’anno, non è previsto alcun investimento per incrementare il numero di queste strutture, attualmente presenti in sole quattro sedi – a Milano, Venezia, Roma e Cagliari. In passato erano cinque, ma si sono ridotte a quattro dopo la chiusura, nel febbraio scorso, di quello di Lauro, in provincia di Avellino, l’unico al Sud, i cui ospiti sono stati smistati nelle altre strutture in barba al rispetto della territorialità della pena. La contraddizione è evidente: l’obbligo di esecuzione in ambienti specifici rischia di scontrarsi con la loro indisponibilità, costringendo le donne a scontare la pena in

carcere con tutte le conseguenze gravi nei confronti dei piccoli. L’introduzione di un meccanismo di monitoraggio, con l’obbligo per il Governo di presentare alle Camere una relazione annuale sull’attuazione delle misure, appare come una soluzione provvisoria di fronte alle criticità introdotte. Senza un piano concreto di espansione degli Icam e senza garanzie per evitare che bambini innocenti finiscano dietro le sbarre, la relazione rischia di certificare una situazione critica senza offrire soluzioni.

Come evidenziato dalle associazioni che si occupano delle questioni penitenziarie, l’Icam resta comunque un ambiente detentivo. Per questo motivo, l’allora deputato del Pd Paolo Siani aveva presentato una proposta di legge, snobbata sia dalle precedenti legislature sia da quella attuale, volta non solo a ridurre la presenza di minori negli istituti penitenziari, ma anche a potenziare il ricorso alle case famiglia protette. L’idea era quella di offrire un’alternativa per le madri di figli minori di sei anni che non dispongono di un’abitazione idonea per usufruire degli arresti domiciliari durante il processo o per scontare la pena, una volta divenuta esecutiva la sentenza di condanna.

Siani, anche in qualità di medico, ha sottolineato come le avversità precoci, soprattutto nei primi due anni di vita, possano influire sulla struttura del cervello, indebolendo le connessioni tra le regioni cerebrali e riducendo le capacità cognitive in età adulta. L’ambiente carcerario – sia nelle sezioni nido che negli Icam – si dimostra inconciliabile con la crescita sana e naturale di un bambino, costretto a trascorrere i primi anni di vita in un contesto di deprivazione affettiva, relazionale e sensoriale.

Il decreto pubblicato in Gazzetta, inserisce anche un nuovo reato: quello di rivolta all’interno del carcere. In pratica, se un detenuto partecipa ad una rivolta – intesa come atti di violenza, minaccia o resistenza agli ordini per mantenere l’ordine – è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Secondo quanto riportato in Gazzetta, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. Chi organizza o dirige la rivolta rischia la reclusione da due a otto anni, con sanzioni ulteriormente inasprite in caso di uso di armi o conseguenze gravi, fino alla possibilità di un aggravamento triplo della pena.

L’associazione Antigone non risparmia critiche a questa norma. Secondo il gruppo, la disposizione appare «truce», perché non specifica quali comportamenti possano configurarsi come reato di rivolta. Ogni atto violento o di resistenza è già perseguito dalla legge, ma ciò che trasforma una protesta – anche non violenta – in un reato resta vago. In questo modo si rischia di punire forme di dissenso e di trasformare il rifiuto, come ad esempio non spostarsi in isolamento o scioperare con il digiuno, in una condotta criminale.

La norma, che non precisa se l’ordine debba essere legittimo, apre la strada a una repressione che sostituisce il dialogo con la forza. La trasformazione di normali richieste di aiuto in reati potrebbe segnare un allontanamento dagli standard di una società democratica e minacciare il diritto alla critica sancito dalla Costituzione. «Il nuovo decreto sicurezza, figlio diretto della linea Minniti/ Conte- Salvini, è entrato in vigore da pochi giorni. È il carcere il luogo in cui, da sempre, si sperimentano le sue vecchie e nuove forme così come si testano nuovi ordigni in una guerra perpetua, silenziosa, spietata», denuncia in un comunicato Lisa Sorrentino dell’associazione Yairaiha Onlus.