Depistaggio senza autori: il caso Borsellino si chiude senza colpevoli
Secondo il tribunale di Caltanissetta per Mario Bo e Fabrizio Mattei i reati per le indagini sulla strage di via D’Amelio sono prescritti, mentre Michele Ribaudo è stato assolto
Due prescrizioni e una assoluzione perché il fatto non sussiste: così si conclude in primo grado il processo per il depistaggio sulla morte di Paolo Borsellino nei confronti di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. I tre poliziotti erano accusati di calunnia per aver indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a mettere a verbale bugie e ad accusare ingiustamente degli innocenti, che poi furono condannati all’ergastolo per la strage. I reati contestati a Bo e Mattei sono stati dichiarati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto. Il Borsellino quater, ricordiamo, ha sentenziato che è stato messo in atto il più grande depistaggio della storia giudiziaria del nostro Paese. Ma con questa sentenza, sommandola all’archiviazione nei confronti dei magistrati che seguirono le indagini, si rimane senza colpevoli. Un depistaggio senza autori, quindi. Ricordiamo che, durante la requisitoria, secondo il pubblico ministero Stefano Luciani, i tre imputati «hanno avuto molteplici condotte e tutte estremamente gravi, che rendono tangibile il grado di compenetrazione nelle vicende: non una condotta illecita di passaggio, ma che dal primo momento fino all'ultimo si ripete e si reitera». E poi ha aggiunto: «È dimostrato in maniera assoluta il protagonismo del dottor Mario Bo, sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e nella illecita gestione di Scarantino nella località protetta». Ma con la sentenza di primo grado, tale reato – se c’è stato – è prescritto.
Il rapporto tra cosa nostra e ambienti esterni confermato da Giuffrè
Rimangono così sospesi tanti punti interrogativi. Ricordiamo che a parere del procuratore Luciani ci sarebbero forti elementi a dimostrare «convergenze che certamente ci sono state nella ideazione della strage di via D'Amelio, tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra, e ambienti esterni ad essa». Ma quali sarebbero stati questi ambienti? Il pm Luciani fa riferimento a ciò che disse l’ex boss Antonino Giuffrè, pentito nel 2001. Cosa nostra, prima di deliberare le stragi di Capaci e Via D’Amelio, aveva assunto dei contatti con soggetti esterni ad essa per sondare i loro umori. Giuffrè è stato preciso e il pm ha sottolineato di prestare attenzione agli ambienti di riferimento di cui parla il pentito. Ovvero imprenditori e una parte di politici. Di cosa si è parlato? «Hanno inciso profondamente – ricorda Luciani le parole di Giuffrè – in discorsi economici e in modo particolare il discorso degli appalti pubblici». Il dato, tra l’altro riportato in tutte le sentenze sulle stragi, è che le stragi sono frutto di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e ambienti imprenditoriali e politici. Ma a facilitare la strage è stato anche il clima di isolamento nei confronti di Borsellino soprattutto dal suo ambiente lavorativo. Anche qui il pm Luciani è stato chiaro durante la requisitoria. I dati sono incontrovertibili. Sono tanti, a partire – così ha ricordato il pm durante la requisitoria – dalla testimonianza della moglie Agnese quando si riferì alla passeggiata sul lungomare senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, così riferì la moglie, «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere». Quindi i suoi colleghi ed altri avrebbero permesso che si potesse addivenire alla sua eliminazione. «E questa è la traduzione di quello di cui ha parlato Giuffrè, ovvero il clima di isolamento che crea le condizioni per arrivare ad eliminare il dottor Borsellino!», ha chiosato il pm Luciani.
Per Lipari, con l’arrivo di Borsellino Giammanco avrebbe avuto problemi
Altro dato, ma è solo la punta dell’iceberg, è ciò che disse Pino Lipari in merito al trasferimento di Borsellino alla Procura di Palermo. Il pm Luciani ha ricordato le motivazioni della sentenza del quater: «Il pentito Angelo Siino ha riferito i commenti di Pino Lipari, secondo cui l'arrivo di Borsellino avrebbe certamente creato delle difficoltà a quel santo cristiano di Giammanco e cioè al procuratore della Repubblica con il quale già Giovanni Falcone aveva avuto contrasti e incomprensioni dal punto di vista professionale che l'avevano determinato ad accettare l'incarico propostogli del ministero della Giustizia». Ma perché il pm ha fatto riferimento a ciò? Si ritorna sempre agli ambienti esterni riferiti da Giuffrè. Ricorda che durante l’udienza del 2019, il pentito Brusca fece riferimento all’impresa Reale e tale azienda era proprio legata a Lipari. «Era un'impresa fallita, ma a un certo punto questa impresa riemerge e viene sponsorizzata da Salvatore Riina – ha spiegato il pm sempre durante la requisitoria – e messa nel giro dei grandi appalti: doveva essere lo strumento per creare il nuovo canale politico istituzionale: uno degli strumenti che venne individuato da Cosa Nostra quale possibile cerniera tra il mondo mafioso, quello politico di rilievo nazionale e imprenditoria di rilievo nazionale». E chi c'era dietro l'impresa reale come referenti per Cosa nostra? Pino Lipari e Antonino Buscemi. Quest’ultimo doveva curare il rapporto con le figure del gruppo Ferruzzi, «ma era l'ingegner Bini quello che rappresentava questa nuova cordata politica imprenditoriale», ha sottolineato Luciani. Tutta questa operazione, come ha riferito Brusca, avviene tra il 1989 e il 1992. «Siamo nel pieno periodo stragista!», ha chiosato Luciani.
L’avvocato Trizzino: «Un disegno criminoso di chi doveva cercare la verità»
Quindi il depistaggio non può non essere legato alla genesi dell’attentato di Via D’Amelio. Entrambi i momenti sono stati congegnati da Cosa nostra con il benestare di queste forze esterne appena descritte. Aiutano le parole dette in aula dall’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile dei figli di Borsellino: «Nell’opera di ricostruzione di ciò che è avvenuto dopo la strage di via D’Amelio, l’approssimazione, le anomalie e negligenze corrispondevano a un disegno criminoso portato avanti da uomini che dovevano ricostruire la verità: è stato compromesso il diritto dell’accertamento della verità negli eventi antecedenti e successivi che hanno portato alla strage di via d’Amelio!». È oramai storia nota che erano state condannate – con tanto di conferma in Cassazione – delle persone innocenti, accusate di essere state gli esecutori della strage di Via D’Amelio. Tesi che si è retta esclusivamente sulle accuse da parte di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e soprattutto da Vincenzo Scarantino, il quale (pur attraverso un percorso dichiarativo disseminato di contraddizioni e ritrattazioni) aveva accusato di partecipazione alla strage di Via D’Amelio, oltre che sé stesso, numerose persone, alcune delle quali appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (uomini di Pietro Aglieri).
Con le dichiarazioni di Spatuzza nel 2008 la svolta nelle indagini
La svolta si ebbe nel 2008, con un lavoro iniziato dalla “nuova” procura di Caltanissetta sulla scorta delle dichiarazioni sconvolgenti di Gaspare Spatuzza, il quale nel giugno dello stesso anno aveva manifestato tale intendimento al Procuratore nazionale antimafia, spiegando che la propria decisione era frutto di un sincero pentimento basato su una autentica conversione religiosa e morale, oltre che sul desiderio di riscatto. Spatuzza si è attribuito la responsabilità – unitamente ad altri soggetti inseriti in Cosa nostra – di un importante segmento della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio. Siamo così arrivati al borsellino quater che accertò il depistaggio, da lì è nata anche una indagine nei confronti dei magistrati di allora, coloro che gestirono lo pseudo pentito Scarantino. Ma è stata archiviata. Erano rimasti soltanto i poliziotti, ma il processo si è concluso con la prescrizione e una assoluzione.