Nessuna «omissione o rifiuto di atti d'ufficio» bensì «pieno esercizio dei nostri doveri». A dirlo sono stati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro (ora in forza alla procura europea), i due magistrati che hanno rappresentato l’accusa nel processo Eni-Nigeria, per i quali la procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio per rifiuto d’atti d’ufficio.

Le due toghe hanno prima reso dichiarazioni spontanee davanti al gup Christian Colombo e poi si sono sottoposti all’interrogatorio, ribadendo che non depositare gli «elementi» segnalati dal collega Paolo Storari era stata una scelta ponderata e comunicata, attraverso una relazione, all'allora procuratore della Repubblica Francesco Greco e all'aggiunto Laura Pedio, che avevano condiviso la loro decisione.

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La vicenda è relativa alle prove potenzialmente favorevoli alla difesa non depositate al processo sulla presunta maxi tangente da 1 miliardo e 92 milioni versata ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero per il giacimento Opl245. Tangente mai provata - il processo si è chiuso con l’assoluzione di tutti gli imputati, tra i quali l’attuale Ad di Eni, Claudio Descalzi, e l’ex numero uno, Paolo Scaroni - in quanto mancano «prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato», si legge nelle motivazioni della sentenza, che ha fatto saltare sulla sedia gli esperti dell’Ocse.

Al contrario, i due pm sarebbero stati in possesso di prove che avrebbero potuto contribuire a provare l’innocenza degli imputati, prove che però non sono arrivate al processo. Tra queste un video girato da Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, che dimostrerebbe il tentativo del grande accusatore Vincenzo Armanna (ex manager del cane a sei zampe) di screditare i vertici della compagnia, avviando una devastante campagna mediatica. De Pasquale, nel corso del processo, ha ammesso di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averla né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuta non rilevante». Nessuna volontà di «arrecare qualsiasi vulnus», aveva chiarito, «noi ci siamo attenuti solo a quegli atti che direttamente potevano toccare l’evoluzione delle dichiarazioni di Armanna».

Il video provava l’interesse di Armanna a «cambiare i capi della Nigeria» per piazzare, al loro posto, «uomini di suo gradimento ed essere così agevolato negli affari». E per fare ciò aveva intenzione di «gettare discredito sulle persone giudicate di ostacolo», anche adoperandosi per «far arrivare un avviso di garanzia», intenzione confermata dallo stesso durante il processo. Ma c’è di più. Dopo gli interrogatori di Amara nell’ambito dell’inchiesta sul falso complotto Eni, Storari trasmise a De Pasquale e Spadaro delle chat trovate nel telefono di Armanna, dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati. Tuttavia, nel processo sono state poi depositate dalla difesa di Armanna solo le presunte chat «false» che la stessa aveva già prodotto a De Pasquale e Spadaro.

Secondo gli atti trasmessi da Storari, Eke non si sarebbe presentato in aula ritenendo il “compenso” di 50mila dollari insufficiente, mandando al suo posto un amico. Il ruolo di Eke nel processo è centrale: sarebbe lui la fonte di tutte le informazioni di cui era in possesso Armanna relativamente alla presunta corruzione e ai pagamenti indebiti. Che le chat depositate fossero false ora è provato anche da una perizia disposta dal procuratore aggiunto Pedio sul telefono di Armanna, che ha stabilito che i messaggi WhatsApp che l’ex manager ha dichiarato di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e Granata non sono mai arrivati ai destinatari da lui indicati, anche perché i numeri ascritti ai due all’epoca non erano nemmeno attivi e, quindi, non esisteva alcun traffico telefonico.

La perizia sul telefono - clamorosamente mai sequestrato prima di luglio 2021, nonostante quei messaggi fossero stati anche consegnati strumentalmente da Armanna al Fatto Quotidiano - conferma dunque quanto scoperto da Storari, precedentemente titolare insieme a Pedio dell’inchiesta sul “Falso complotto Eni”: il pm aveva infatti verificato che quei numeri erano “in pancia” a Vodafone, circostanza segnalata ai colleghi De Pasquale e Spadaro, che però avevano minimizzato, sostenendo che in teoria potessero essere “invisibili” in quanto riconducibili ai servizi segreti. Tale elemento era stato segnalato da Storari insieme ad altri, sollevando dunque il dubbio che Armanna potesse essere un calunniatore, così come Amara.

In udienza preliminare, i due magistrati hanno sostenuto di essere rimasti nei margini della «discrezionalità» concessa a chi indaga che non è espressione di rigidi paletti e di non aver depositato quegli elementi per via delle modalità di trasmissione degli stessi da parte di Storari. Al processo ha chiesto di costituirsi parte civile Gianfranco Falcioni ( assistito dagli avvocati Gian Filippo Schiaffino, Pasquale Annichiarico e Federica Cirella), l’imprenditore in affari con Eni ed ex viceconsole onorario in Nigeria imputato nel processo sulla presunta maxi tangente, che si ritiene vittima dell’omissione dei pm.

L’udienza è stata rinviata al 18 gennaio 2023, giorno in cui l’accusa ribadirà la richiesta di rinvio a giudizio. In quella data sarà entrata in vigore la riforma Cartabia che affida al gup un effettivo potere di filtro. Le possibilità di un rinvio a giudizio, dunque, si “restringono”: il giudice sarà infatti chiamato a pronunciare sentenza di ' non luogo a procedere' quando ' gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna' dell'imputato. La legale dei due magistrati, Caterina Malavenda, è invece pronta a chiedere il proscioglimento.