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«Uno: c’è stata una nomina. Due: era legittimo che io la facessi con la più ampia discrezionalità. Tre: confermo che non c’è stato alcun condizionamento». Inizia così l’informativa del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, alla Camera, sulla nomina di Francesco Basentini a capo del Dap nel 2018, dopo l’offerta di quel posto, poi ritirata, al pm Nino Di Matteo. L’informativa, com’è noto, nasce dopo le polemiche avviate proprio da Di Matteo, che durante la trasmissione “Non è l’Arena” di Massimo Giletti, commentando le recenti scarcerazioni disposte per il pericolo Covid in carcere, ha gettato ombre sulla scelta di Bonafede, lasciando trapelare l’idea di un possibile condizionamento alla base della sua mancata nomina. Ora il Guardasigilli - autore di un dl che tenta di porre un argine alle scarcerazioni, cedendo alle pulsioni giustizialiste per placare le polemiche e dimostrare la sua buonafede - ribadisce il concetto: «non c’è stato alcun tipo di condizionamento». Ma ci sono particolarità, aggiunge, «che meritano di essere evidenziate». Trasparenza e verità, dunque, per fare chiarezza dopo giorni di dibattiti «animati dalla menzogna e dalla malafede». Ma non si riferisce alle parole di Di Matteo, ci tiene a precisare, bensì al dibattito e al mulinello mediatico che quelle parole hanno generato. Un dibattito politico mediatico fatto di «vergognose illazioni e suggestioni istituzionalmente e personalmente inaccettabili», in una sorta di «pirandelliano “Così è se vi pare”». C’è un limite, ruggisce Bonafede, «e per me quel confine nella politica e fuori dalla politica è rappresentato dalla mia onorabilità, nonché dal rispetto degli altri e della memoria di chi è morto per servire questo Paese». Parole sottolineate dall’applauso dell’aula. Passando ai fatti, Bonafede propone la cronistoria di quei giorni: subito dopo il giuramento da ministro, si mise a lavoro per formare la squadra del ministero, con circa 50 colloqui per tutti i ruoli da ricoprire. «L’obiettivo principale che mi ero prefissato era quello di individuare magistrati che avessero la professionalità e la grinta necessaria per portare avanti il progetto ambizioso che avevo in mente - spiega -. Pensai, certo, anche al dottor Di Matteo e lunedì 18 giugno 2018 lo contattai telefonicamente per proporgli di valutare la possibilità di entrare nella squadra che stavo costruendo per il ministero della Giustizia». Colloqui informali di due anni fa, ricostruiti con fatica, chiarisce. Durante la telefonata i due rievocarono il ruolo di Falcone, l’importanza di quella casella, da riempire nel giro di due giorni al massimo. Tempi strettissimi, dunque, che Bonafede usa come scudo per spiegare l’iter. Di Matteo chiese 48 ore di tempo, tempo che il Guardasigilli, di fatto, non gli concede: «gli chiesi di vederci il giorno dopo per giungere ad una decisione. Su quelle successive 24 ore è stato detto di tutto». La domanda è sempre la stessa: Bonafede si fece condizionare o intimorire da qualcuno? «La risposta è molto semplice: no», dice il ministro. I malumori dei boss su quella possibile nomina, intercettati in carcere, erano noti al ministero già dal 9 giugno, spiega Bonafede, prima, dunque, di quella telefonata. «Una volta per tutte - scandisce il ministro - non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo del Dap. Non sono disposto a tollerare più alcuna allusione, lo devo a me stesso e prima di tutto alla carica istituzionale che mi onoro di ricoprire». L’incontro tra Bonafede e Di Matteo avvenne il 19 giugno, quando Bonafede propose un ruolo equiparabile a quello che fu di Falcone. «Avrebbe richiesto certamente più tempo - spiega - e avrebbe implicato probabilmente una riorganizzazione del ministero, ma ne sarebbe valsa la pena, perché nel progetto che avevo in mente avrei consentito al dottor Di Matteo di lavorare in Via Arenula, al mio fianco. Non ragionai, lo ammetto, in termini di peso gerarchico del ruolo da ricoprire, bensì sul buon funzionamento del progetto. È nel mio diritto e soprattutto nei miei doveri ragionare sulle mie scelte pienamente discrezionali e indirizzarle nell’interesse della pubblica amministrazione». E spiega che il capo del Dap non si occupa solo della gestione dei detenuti mafiosi, ma anche delle carceri, della loro edilizia, del personale, della burocrazia eccetera. Mentre Di Matteo, lascia intendere Bonafede, voleva occuparsi proprio di quello: dei mafiosi. «Nella mia determinazione Di Matteo avrebbe avuto la possibilità di lavorare in via Arenula in un ruolo più specifico e potenzialmente incidente su tutte le questioni penali», aggiunge il ministro. Insomma, al netto di organigrammi vari, nella sua ottica quello sarebbe stato il ruolo migliore. «La mafia, che vive di segnali, non sarebbe andata a guardare l’organigramma del ministero, ma avrebbe constatato una sola circostanza: Di Matteo dentro le istituzioni lavorava al fianco del ministro della Giustizia», aggiunge. La prospettiva era non immediata, ma futura. E invece Di Matteo, il 20 giugno, tornò in via Arenula, dicendo che non era più disponibile, perché avrebbe preferito il posto al Dap. Per il quale Bonafede, sorpreso, aveva già scelto Basentini. «Un magistrato alla quinta valutazione di professionalità, già procuratore aggiunto di Potenza che si era distinto nel proprio lavoro e che già al colloquio si era dimostrato di essere all’altezza del suo curriculum», chiarisce il ministro. E i risultati, al netto delle polemiche, sono stati importanti: piani di riconversione di ex complessi militari, piani per la realizzazione di nuovi padiglioni, nuove assunzioni, riordino delle carriere, protocolli di lavoro per i detenuti. «Riguardo alle strumentalizzazioni in tema di scarcerazioni - spiega Bonafede - ricordo che sono state determinate da decisioni prese in piena autonomia e indipendenza da magistrati competenti, nella maggior parte dei casi per motivi di salute, sui quali, ovviamente, non c'è stato alcun condizionamento da parte del ministero e del Governo». E i due decreti legge approvati negli ultimi giorni «sono la risposta migliore da parte del Governo». Parole che arrivano proprio nel giorno del cambio al vertice del dipartimento, con l'insediamento, stamattina, del pm Bernardo Petralia, mentre da una settimana il suo vice, Roberto Tartaglia, è già a lavoro. «Il fronte antimafia - chiude il ministro - rimane compatto».