C’è una foto che, a riguardarla ora, spezza il cuore. Risale allo scorso marzo, quando Papa Francesco celebrò la Messa in Coena Domini nel carcere femminile di Rebibbia. È un'immagine che racconta tutto senza bisogno di parole: Patricia Nike, nigeriana di 54 anni, piange disperata, sorretta da una agente penitenziaria. «Soffro troppo, non ce la faccio più», ripete tra i singhiozzi. Il Papa le accarezza il volto, le poggia una mano sulla fronte e promette preghiere. Un gesto che oggi sembra l'ultimo conforto ricevuto da una donna che, pochi mesi dopo, avrebbe trovato la morte nel carcere Pagliarelli di Palermo, sola, dimenticata.

A raccontare questa vicenda dolorosa è Claudio Bottan sulle pagine della rivista Voci di Dentro, fondata dal giornalista Francesco Lo Piccolo, dove scrivono principalmente i detenuti delle carceri abruzzesi. Una storia di sofferenza fisica e mentale, una delle tante che si incontrano nei corridoi delle carceri italiane, se si ha la volontà di ascoltare. È, come scrive Bottan, l'ennesima vicenda di una persona che il carcere non poteva curare, ma che in carcere ha trovato la morte.

Come si legge nel doloroso articolo apparso su Voci di Dentro, Patricia Nike è arrivata al Pagliarelli l'8 gennaio scorso, trasferita da Rebibbia in ambulanza. Era malata, debilitata, fragile. Non aveva familiari in Sicilia, e non vi era alcun motivo apparente per portarla in un carcere notoriamente sovraffollato e con gravi carenze sanitarie.

La logica del trasferimento resta oscura. Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo, si chiede perché una donna in condizioni così critiche sia stata costretta a questo spostamento. Patricia era sieropositiva, tossicodipendente in terapia con metadone, e affetta da altre patologie gravi. Qualche mese fa era stata richiesta la sospensione della pena per consentirle cure adeguate, ma la richiesta era stata rigettata: secondo il tribunale di Sorveglianza, il carcere di Rebibbia era in grado di garantire l'assistenza necessaria. Una decisione che oggi suona beffarda, considerata la sua morte improvvisa e il trasferimento a Palermo, che sembra parte di un'operazione di “sfollamento” legata a lavori di ristrutturazione in corso a Rebibbia.

«La trasparenza non è una virtù dell'istituzione penitenziaria», sottolinea Bottan, e questo caso ne è un esempio evidente. La morte di Patricia non sarebbe nemmeno comparsa tra gli “eventi critici” monitorati dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, come se non fosse mai accaduta.

Un grido che nessuno ha ascoltato

Al Pagliarelli Patricia era stata collocata in cella con altre tre detenute. Una di loro aveva il ruolo di “piantona”, una caregiver incaricata di assisterla nelle sue necessità quotidiane. Le condizioni di Patricia, però, erano critiche sin dal primo giorno: camminava con l’aiuto di un girello e faceva passi incerti. Il 12 gennaio, appena quattro giorni dopo il suo arrivo, il suo corpo ha ceduto.

Non si conoscono ancora le cause esatte della morte, ma appare chiaro che la sua salute non era compatibile con il regime carcerario. Questa vicenda, come molte altre, solleva domande inquietanti: quali erano le condizioni reali di Patricia al momento del trasferimento? Si trattava di una scelta dettata da esigenze logistiche o, come temono alcuni, di un modo per “spostare il problema” lontano da Rebibbia? Patricia era una delle tante persone “incollocabili”, come vengono definite nel gergo carcerario: malate, tossicodipendenti, fragili. Persone che non dovrebbero trovarsi in carcere, ma in strutture sanitarie adeguate.

«Chi se ne importa di una donna tossica, nera, straniera?», si chiede amaramente Bottan. La sua è una storia che sarebbe rimasta sepolta nel silenzio se non fosse stata raccontata da Voci di Dentro. Ed è proprio questo silenzio a rendere tutto più crudele: una morte che non fa rumore, una vita che si spegne senza lasciare traccia.

Come ricorda Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, il carcere italiano è pieno di invisibili: tossicodipendenti, senza fissa dimora, stranieri senza permesso di soggiorno. Persone che commettono reati perché non hanno alternative, e che vengono rinchiuse in un sistema che non le cura, ma le abbandona. Patricia Nike era una di loro.

La senatrice Ilaria Cucchi, attraverso una formale richiesta di accesso agli atti, vuole far luce su questa vicenda. Ma il caso di Patricia non è un’eccezione: è parte di un sistema che spesso calpesta i diritti fondamentali delle persone detenute. Salute, dignità, umanità: valori che dovrebbero essere garantiti, ma che troppo spesso vengono sacrificati sull’altare della sicurezza e dell’efficienza.

Oggi, la storia di Patricia ci interroga. Ci costringe a guardare negli occhi l’indifferenza di un sistema che non è riuscito a proteggerla, che l’ha strappata alla vita nel modo più ingiusto. Forse, come scrive Bottan, l’unico che ha visto Patricia come una persona, e non come un problema, è stato Papa Francesco. Ma il suo grido di aiuto, lanciato tra le lacrime quel giorno a Rebibbia, merita di essere ascoltato ancora oggi. Per la memoria di Patricia e per tutti i detenuti invisibili, abbandonati dalla società stessa, che stanno soffrendo.

Altre storie di ordinaria ingiustizia

«È una strage silenziosa quella che si sta consumando nelle carceri italiane». Aulla scia denunciata da Bottan, arriva l'allarme lanciato da Rita Bernardini, che denuncia una situazione ormai al collasso. Non sono solo i suicidi a preoccupare - già record nel 2024 - ma è l'intero sistema sanitario penitenziario a mostrare crepe sempre più profonde. La denuncia di Bernardini parte da due casi emblematici emersi nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso.

Un detenuto anziano, malato di cancro, costretto a saltare ripetutamente le sedute di chemioterapia. Il motivo? La mancanza di scorte della polizia penitenziaria per accompagnarlo in ospedale. Accanto a lui, la storia di un giovane con un tumore maligno alla vescica, le cui cure chemioterapiche si sono bruscamente interrotte al momento dell'ingresso in carcere, sei mesi fa.

«Questi casi sono venuti alla luce grazie al laboratorio mensile “Spes contra Spem” che conduciamo a Rebibbia», spiega Bernardini. «Siamo riusciti a intervenire solo grazie a una direzione carceraria attenta e disponibile all'ascolto. Ma quanti altri casi simili rimangono nell'ombra nelle carceri italiane?». La risposta è agghiacciante: «Tantissimi», afferma senza esitazione la presidente di Nessuno Tocchi Caino. Il problema è sistemico e affonda le sue radici in tre criticità principali: la cronica carenza di personale di polizia penitenziaria per le scorte, il sovraffollamento delle strutture, e quello che Bernardini definisce senza mezzi termini «la debacle della sanità penitenziaria».

«Chiamiamoli con il loro nome», tuona Bernardini, «sono delitti di Stato». Una definizione forte, che però trova riscontro nella realtà dei fatti. Nonostante le continue denunce presentate dalle associazioni, nessun procuratore ha finora voluto indagare a fondo per individuare i responsabili. «E i responsabili», sottolinea Bernardini, «sono molto, molto in alto». È un sistema che uccide per omissione, per negligenza, per mancanza di risorse. Un sistema che trasforma una pena detentiva in una potenziale condanna a morte per chi ha la sfortuna di ammalarsi dietro le sbarre.

La negazione del diritto alla salute - costituzionalmente garantito - diventa così l'ennesima pena accessoria non scritta, ma tremendamente reale. Il caso di Patricia Nike, morta al Pagliarelli di Palermo, non è quindi un episodio isolato, ma la punta di un iceberg fatto di sofferenza e morte silenziosa. Un sistema che continua a mietere vittime nell'indifferenza generale, mentre chi dovrebbe vigilare volta lo sguardo dall'altra parte.