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Proviamo ad immaginare di sentire un dolore fastidioso che non ci permette di vivere con serenità. Si va dal medico e si scopre che il fastidio può essere risolto solo con un intervento chirurgico. Non farlo vuol dire convivere perennemente con il dolore imbottendosi di antinfiammatori, oltre a subire l’inevitabile infezione cronica. Nel mondo libero abbiamo la possibilità di curarci, così come anche una persona reclusa in carcere visto che ne ha il diritto. Eppure c’è un uomo, attualmente recluso al carcere di Secondigliano, che dal 2018 è in attesa di una operazione chirurgica. Avrebbe subito una vera e propria violazione del diritto alla salute, per questo il suo legale Daniel Monni ha da poco depositato un atto di denuncia e querela presso la procura di Napoli.
Dalla lettura del diario clinico di Antonino Cupri, così si chiama il detenuto, si evince, di fatto, una gravissima circostanza: nonostante il 3 ottobre del 2018 gli fosse stata diagnosticata una fistola perianale e la conseguente necessità di procedere a un intervento chirurgico, «il decorso di oltre due anni dall’accertamento – si legge nella denuncia depositata in procura - non ha, ad oggi, consentito di giungere all’auspicato, sollecitato e quantomai necessario intervento». Tant’è vero, il medico legale ha da poco rilevato ed accertato che «in assenza di trattamento chirurgico le complicanze verso cui è destinata ad evolvere la patologia – potenzialmente gravissime – sono rappresentate da sovrainfezioni e/ o evoluzioni necrotiche tissutali distrettuali [e che, pertanto] tale consapevolezza impone quindi nel caso di specie di ritenere non più differibile il trattamento chirurgico già rimandato da diversi anni».
In effetti già da quando Antonino Cupri era recluso al carcere di Reggio Calabria i medici sollecitavano l’intervento per evitare complicanze. Man mano sempre più dolori, tanto che quando è stato trasferito nel carcere di Secondigliano, Cupri ha cominciato ad attuare lo sciopero della fame per reclamare il proprio diritto alla salute. A ciò si è aggiunta l’insorgenza anche di ragadi anali, le quali creano un ulteriore dolore, spesso spropositato. Basterebbe leggere il diario clinico del 24 ottobre 2019: «Si richiede ricovero presso le seguenti strutture: Ospedale del Mare, Ospedale San Paolo, Ospedale Cardarelli per intervento chirurgico per fistola sacrococcigea. Si richiede la massima precedenza per complicazioni sopraggiunte». Siamo oramai a fine anno del 2020 e tuttora non ha subito alcun intervento chirurgico.
Nella denuncia si osserva che «la deliberata e protratta indifferenza serbata nei confronti delle necessità psico- fisiche del querelante, dunque ed in sintesi, palesa l’integrazione del delitto p. e p. dall’art. 572 c. p.: in ogni istituto penitenziario, infatti ed a mente dell’art. 17 d. p. r. 230/ 2000, deve essere garantita l’assistenza sanitaria e devono essere svolte con continuità attività di medicina preventiva che rilevino ed intervengano in merito alle situazioni che possano favorire lo sviluppo di forme patologiche».
Così la moglie di Cupri commenta tutta questa sofferenza: «A prescindere dal reato, la colpevolezza o meno, la dignità e il diritto alla salute non dovrebbero venire meno. Attenzione – ci tiene a sottolineare -, non solo per mio marito, ma per tutti quelli come lui che a livello di salute hanno anche patologie peggiori». A Il Dubbio commenta amaramente anche l’avvocato Daniel Monni: «La vicenda di Antonino Crupi evoca in me l'immagine della macchina dell'esecuzione di Kafka. Molti non guardavano, tutti sapevano: si stava facendo giustizia. Nel silenzio si udiva solo, smorzato dal feltro, il gemito del condannato». La vicenda di Cupri è rappresentativa di un problema enorme che coinvolge altrettanti detenuti. Come ha voluto sottolineare la moglie, si tratta di una questione sanitaria che riguarda anche persone con patologie gravissime. Proprio un mese fa è stata condannata una dottoressa che operava al carcere di Opera. Non per aver contribuito, secondo l’accusa con le sue cure negligenti e superficiali, a provocare la morte di un ergastolano. Ma per lesioni colpose, essendosi limitata a prescrivere tachipirina a chi per almeno due mesi, nella tarda estate di sei anni fa, stava soffrendo le pene dell’inferno per un cancro che non lasciava speranze.