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Alcuni punti fermi. La «irragionevole riforma Bonafede», come l’ha definita giovedì sera un moderato qual è Andrea Orlando, è in archivio. Non c’è più l’assurdo di un processo che può durare all’infinito senza alcuna barriera temporale, una volta emessa la sentenza di primo grado. Persino per i reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e narcotraffico, ci possono essere sì proroghe infinite, di un anno in appello e 6 mesi in Cassazione, da parte del giudice, ma dovranno essere motivate e resteranno comunque impugnabili dinanzi alla Suprema Corte. Dovranno richiamarsi a una “complessità” del giudizio, legata al “numero degli imputati” o alle “questioni di diritto”, e non alla sonnolenza fisiologica del sistema giudiziario. C’è da credere che se un giudice scrivesse, nell’ordinanza di proroga, che serve un altro anno perché la sua Corte d’appello è travolta dall’arretrato, la Cassazione annullerebbe l’overtime. È un ulteriore passo avanti, rispetto alla prescrizione, che va riconosciuto persino al “regime speciale” correttivo della “improcedibilità”, rivelatosi decisivo per l’intesa di maggioranza. Persino per i reati gravi non c’è più una scorrevole autostrada verso l’infinito.
Tutto vero. Eppure, come ripetono nelle ultime ore autorevoli giuristi, a cui questo giornale continua a dare voce, ripristinare un limite temporale al processo non attraverso la “prescrizione del reato”, che è istituto sostanziale, ma con la “improcedibilità”, norma di diritto processuale, è nella migliore delle ipotesi un salto nel buio. Marta Cartabia ha dovuto far ricorso a una soluzione del genere perché l’intricato marchingegno poteva attenuare il disdoro del Movimento 5 Stelle. Punto. Non c’è un’altra ragione. I suoi esperti avevano pensato ad altro. Al ripristino della riforma Orlando, solo appena ritoccata: due anni di sospensione dopo la sola condanna in primo grado e un altro anno dopo l’eventuale condanna in secondo grado. In modo che tutti i giudizi d’appello e in Cassazione potessero disporre di un margine supplementare per concludersi.
È ormai noto come il presidente della commissione ministeriale istituita dalla guardasigilli, Giorgio Lattanzi, fosse assolutamente convinto che la strada maestra per mandare in soffitta la norma Bonafede consistesse nel regime della doppia sospensione, a cui ovviamente sarebbe rimasta come presidio la cerniera dei reati più gravi, come l’omicidio, comunque imprescrittibili o con tempi di estinzione anche pluridecennali. Ma prima ancora che Lattanzi concludesse i propri lavori, già la forza politica più attenta alla mediazione coi 5 stelle, il Pd, aveva depositato in commissione Giustizia un emendamento da considerare, di fatto, l’archetipo della soluzione approvata giovedì in Consiglio dei ministri, e ieri in commissione Giustizia.
L’ipotesi dem era assai vicina al testo finale di Cartabia, seppur priva delle eccezioni per i reati più gravi, solo distingueva tra assolti e condannati in primo grado. In appello, e in Cassazione, sarebbe scattata appunto l’improcedibilità dopo un tempo limite. Di fatto il “lodo Draghi- Conte” viene da lì, più che da via Arenula. È vero che Lattanzi, nella propria relazione finale, ha aggiunto, al ripristino della prescrizione targata Orlando, una “ipotesi B” pure imperniata sull’improcedibilità. Ma si trattava di uno schema diverso, con una propria coerenza, giacché la prescrizione del reato usciva del tutto di scena nel momento in cui si passava dalla fase preliminare delle indagini a quella del processo vero e proprio, e soprattutto prevedeva tempi limite anche per il primo grado. Un’ipotesi che comunque i tecnici hanno messo sul tavolo della ministra più per evidente necessità politica che per effettiva convinzione scientifica.
Ala fine, l’ipotesi B di Lattanzi si è dissolta in un ibrido più vicino, appunto, all’emendamento del Pd che al già dibattuto, in passato, schema della “prescrizione processuale”. E l’ibrido si spiega solo con ragioni politiche. Cosa vuol dire? Che il pregiudizio imposto dalle distorsioni populiste continua a lasciare il segno sull’ordinamento penale. Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, in una dichiarazione all’Adn- Kronos parla di «problemi di interpretazione e di costituzionalità» legati alle nuove norme sull’estinzione del processo. Un pm particolarmente schietto come Alfonso Sabella aggiunge: «Il problema è che le riforme in materia di giustizia non si fanno sulla base di una visione organica ma di accordi pasticciati e ispirati logiche di compromesso», perciò ci troviamo con «un sistema che, per come è strutturato, se lo vedesse un giurista dell’antica Roma, inorridirebbe». Ce lo porteremo per anni. E quando magari, in una maggioranza libera da forze come i 5 Stelle, qualcuno osasse far notare che non è possibile andare avanti col doppio binario per qualsiasi reato anche minore collegato alla mafia, le urla dell’indignazione populista continueranno a impedirgli di finire la frase.