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Certo a tre giorni da un delicatissimo vertice su processo penale e prescrizione, convocato da Marta Cartabia per lunedì prossimo, Matteo Salvini poteva anche toccarla un po’ più piano. Poteva evitare che sul precario tavolo della maggioranza precipitasse la sua proposta di rispondere alle difficoltà del “pacchetto giustizia” con l’iniziativa referendaria, avviata d’intesa coi radicali. Eppure il quadro politico non sembra sconvolto più di tanto dalla “bomba” del leader leghista. E il motivo non riguarda solo lo snobistico sussiego che l’ex maggioranza giallorossa esibisce nei confronti di Salvini. Il quale ieri intanto ha almeno un po’ stemperato il tono della “minaccia” di abbandonare le riforme con Cartabia e imbracciare i referendum: lo faremo, ha detto, «se i partiti non troveranno un accordo in Parlamento su riforme necessarie e urgenti». In quel caso, «saranno i cittadini a farlo, tramite referendum». Certo, non ha ritrattato la polemica nei confronti di «Pd e 5 stelle» che «coi loro attacchi quotidiani alla Lega, mettono in difficoltà Draghi e l’azione del governo». Ma il capo della Lega chiarisce in pratica di non voler disertare la discussione aperta da Cartabia sulle riforme del processo. Al più, ribadisce di avere pronta un’arma di riserva. C’è poi un dettaglio: su alcune materie il referendum annunciato insieme coi radicali è possibile eccome, dalla responsabilità civile dei magistrati all’abuso della custodia cautelare fino alla legge Severino; ma su un dossier di particolare delicatezza che pure Salvini ha chiamato in causa, la separazione delle carriere, non c’è alcuna possibilità di abrogare, con una consultazione, una qualche norma “strategica”. Come fa notare il segretario di Area, la corrente progressista dei magistrati, Eugenio Albamonte, «sulla separazione delle carriere la raccolta delle firme è già stata fatta, c’è una proposta in Parlamento, c’è un percorso avviato». Grazie all’Unione Camere penali, va detto per inciso. Non ci sono ancora quesiti depositati in Cassazione, non è dunque partita alcuna raccolta firme. Al massimo Lega e Partito radicale (con un proprio nuovo comunicato) confermano di volersi muovere insieme. Ma il discorso è più sottile, paradossale e imprevedibile. Innanzitutto, Salvini mette nel mirino non la prescrizione, non i limiti all’adozione dei riti alternativi (anzi, un limite l’ha voluto proprio lui due anni fa con la legge leghista che vieta l’abbreviato per i reati da ergastolo): coi referendum vuole fulminare questioni che chiamano in causa soprattutto l’attività dei magistrati, l’abuso dei loro poteri o di istituti come il “carcere preventivo”. Bene: non si tratterà di un siluro per Cartabia, neppure in vista del vertice convocato a via Arenula per dopodomani. Con l’enfasi sulle riforme relative alle toghe infatti, Salvini rischia di rendere un servizio prezioso proprio alle intese di maggioranza sulle riforme. Perché evita che il ddl sul Csm diventi la cenerentola del piano, schiacciata in un angolo dal ddl penale in cui è incistata la diatriba prescrizione. In tal modo, la Lega rischia di spostare l’alleanza di governo più verso il tavolo della riforma sull’ordinamento giudiziario che nel ring della commissione d’inchiesta sull’uso politico. E un simile effetto può solo calmierare il tasso di litigiosità. E ancora, reclamare per la riforma dei magistrati pari se non maggiore attenzione di quanta se ne riservi alla “norma Bonafede” può aiutare la guardasigilli, nel più imprevisto dei modi, ad arbitrare con meno patemi proprio la sfida sulla prescrizione. In ogni caso ieri la scossa provocata dal referendum radical leghista non è sfuggita ai sismografi. Mario Perantoni, il presidente pentastellato della commissione Giustizia della Camera, che è l’epicentro delle liti parlamentari sul processo, è quello che va più sul pesante: il posto di Salvini, dice, «è all’opposizione, se vuole remare contro. Promuovere un referendum sulla giustizia mentre è in corso un importante lavoro coordinato dalla ministra Cartabia per riformare il processo civile e quello penale, e il Csm, dimostra che l’unico terreno che interessa Salvini è quello della propaganda». Molti altri dicono la stessa cosa con parole diverse: dai deputati grillini della commissione — «soliti proclami» — al capogruppo dem in commissione Giustizia al Senato Franco Mirabelli — «solite sparate» — fino al leader di Azione Carlo Calenda. Il quale liquida i referendum sulla giustizia come «iniziative propagandistiche». Però poi conferma a propria volta come l’attualità della questione magistrati imponga di ricalibrare il baricentro delle riforme, e chiede «l’intervento del Colle». Ma il dato forse più indicativo sull’assenza di ostilità verso Cartabia, nella “svolta referendaria” arriva proprio dalla nota del Partito radicale, firmata da Maurizio Turco, Irene Testa e Giuseppe Rossodivita: «Questi referendum sono necessari perché il Parlamento, e in particolare una ben nota componente transpartitica, ha da tempo barattato l’autonomia della politica dagli altri poteri, così pregiudicando lo Stato di diritto», ma «è una provocazione attribuire ai referendum una funzione antigovernativa». E se lo dice chi, delle consultazioni popolari, fa da qualche lustro il principale strumento d’azione, forse è il caso di prendere la cosa sul serio.