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domiciliari
Alcuni giorni fa, proprio su queste colonne ( il 13/ 12/ 2019), è passata la sorprendente notizia - anche per me che sono ' ospite” dello Stato e conosco dal di dentro certe ' dinamiche' mentali - della nomina a garante locale dei diritti dei detenuti di una persona anch'essa passata per le patrie galere, un ex detenuto, il Sig. Pietro loia, conferitagli nientemeno che dal sindaco napoletano De Magistris, ex magistrato. La cosa mi ha ridato subito di che sperare per il mio futuro, suscitandomi - lo ammetto non poca commozione, poiché 29enne e detenuto da 10 anni e con in vista un rilascio per quando ne avrò circa 45 - con buona pace dei proclamanti “pene certe' perché in Italia ' nessuno ci va in galera' oppure s'immagina “porte girevoli' ( sic!!). Ho pensato: «Ma allora mi sono sbagliato, la società in cui vivo è matura per scelte del genere, posso ancora rientrarvi e svolgere, ad esempio, la professione d'avvocato oppure di docente universitario, il mio sogno nel cassetto»... e invece no! Basta leggere a distanza di pochi giorni, sempre su Il Dubbio ( 18/ 12/ 2019), che a seguito di tale nomina «immediatamente sono insorti i sindacati della Polizia Penitenziaria», il che potrà far pensare a qualcuno in buona fede che si tratti solo di una ' categoria” in un certo senso - sia detto sine ira et studio - “di parte', giustamente, ma così non è, infatti il passo citato conclude che «sulla loro scia molti altri hanno ritenuto inopportuna tale scelta ». E allora non era peregrino il mio stupore, mi son detto, non era e non è sbagliato pensare che sarò un “appestato' per sempre, degno solo del biasimo e della censura, da tenere alla larga, lontano dal consorzio umano perché è già tanto che mi si è lasciato sopravvivere e non, invece, “marcire in galera buttando via la chiave'. Fatto sta che io in galera sto marcendoci già, e da quando non avevo manco la barba.
Certo, me la sono cercata e merito la pena che pertanto sconto, com'è giusto che sia, e lo faccio con piene consapevolezza e responsabilità, eppure, contro ogni logica visione di recupero sociale del condannato, contro ogni ragionevole e doveroso interesse a ciò nell'interesse di tutti, nessuno - e dico nessuno - si è mai peritato di chiedermi; “ma lei cosa vuol fare da grande? Ha un sogno, un progetto per il suo domani?'... eh sì, ' da grande' e “sogno” sono le espressioni che ho usato, perché sono entrato in carcere appena compiuti i 19 anni d'età, quindi poco più che un ragazzino, ed ora sono ( quasi) un uomo, dunque ho dei sogni, come chiunque altro. Ma forse è proprio qui il punto, ovvero che secondo alcuni non c'è poi da tanto da interrogarsi e preoccuparsi del futuro di uno se questi ha ucciso ( come nel mio caso), oppure rapinato, estorto od anche “solo” rubato per necessità, in barba a tutti i principi della Carta e delle recentissime sentenze della Consulta sul diritto alla speranza od anche al semplice buon senso. Una volta finiti in carcere, nel nostro paese, od anche solo raggiunti da un avviso di garanzia, si è finiti socialmente, ci si figuri per chi, come me, s'è macchiato di crimini tanto gravi, e la sciagura e lo stigma si estendono a cerchi concentrici su familiari e non. Con grande acume ed insuperabile onestà intellettuale, in occasione del premio letterario “Camera con vista' al carcere di Velletri, un esponente de Il Dubbio - anch'esso tra la giuria - ha ammesso mirabilmente che «noi giornalisti siamo abituati a sbattere in prima pagina i mostri, che siano semplicemente indagati o colpevoli. Appena entrano in carcere ci dimentichiamo di loro e decidiamo irresponsabilmente di non raccontare il loro cambiamento» ( intervento riportato nell'articolo dell' 11/ 01/ 2020), il che - Va detto - fa assai riflettere se lo dice chi quotidianamente per lavoro e vocazione narra le vicissitudini delle carceri nostrane e non solo. Chi conosce sul serio le condizioni delle nostre carceri - e qui va dato atto all'esimio impegno d'informazione di questo giornale e di pochissime altre fonti - e sa della drammatica carenza di personale qualificato per il “trattamento rieducativo' ( educatori, psicologi etc.), sa anche che non sto dicendo nulla d'incredibile, perché sono veramente in tantissimi a rimanere pressoché fermi al giorno del loro arresto, specie se giovanissimi, senza aver fatto nessun progresso della personalità che non sia di tipo anagrafico- somatico, a tacer poi del trattamento spesso volutamente mirato all'infantilizzazione della persona detenuta ( la ' domandina', lo “spesino', lo ' scopino' etc.), quando non anche all'offesa pura e semplice nella sua dignità di uomo e di persona. Ad ogni buon conto, se si pensa ai quotidiani attacchi che riceve il Garante Nazionale Mauro Palma e che dovrebbero far rabbrividire chi pensa ancora di vivere in un paese democratico e in uno Stato di diritto del ' mondolibero', che si vanta - riempiendosene la bocca - d'essere la “culla del diritto', che ha combattuto il nazifascismo, che battaglia in giro per il mondo contro tortura e pena di morte, tutto ciò non dovrebbe stupire più di tanto, anche se questa realtà fattuale la dice assai lunga sui vero stato del nostro paese.
Detto questo, come dovrei/ potrei continuare a sperare? È davvero possibile? Parrebbe paradossale, ma lo è, specie se prendo come monito quel passo evangelico ( Epist. ai Rm, 4; 18) di cui l'Ass. ne ' Nessuno tocchi Caino' ha fatto il proprio vessillo, spes contra spem, ossia sperare contro ( o, al di là di) ogni speranza! E un invito a ciò - grazie soprattutto alla mia compagna - m'è venuto anche leggendo un toccante articolo di Daniele Mencarelli apparso su Avvenire il 14 dicembre scorso, nel quale, rievocando la tragica storia di Erika De Nardo ed il suo ritorno alla normalità, lapidariamente ci ricorda che «se il male, come spesso accade all'uomo, è l'incosciente e scandaloso punto di partenza della storia, ecco poi, silenzioso e sotterraneo, accorrere il bene. Il bene ricuce e sana, anche laddove non sembra possibile. Come nel cuore di Erika ( e di quelli come me, per molti un pozzo avvelenato, da chiudere, seppellire per sempre» e, ancora, che «il bene non urla, lavora di nascosto, di notte, con riserbo, pudore. Ma ha bisogno di mani che lo incarnino, che lo trasmettano malgrado tutto, che siano presenti quando altre non lo sono», e nel caso di Erika - ci ricorda Mencarelli - si è trattato delle mani del padre, Francesco, il quale «nel silenzio dei giusti, di chi non ha bisogno di sirene per sapere che sta contribuendo a qualcosa di grande», ha riflesso su questa terra la misericordia di quel Padre ch'è nei Cieli e di cui noi tutti avremmo bisogno, facendo sì che «dal male più profondo e inaudito, da un peccato che tutti avrebbero voluto come mortale, irrimediabile, è rinata una vita». Io le mani che incarnino questo Sommo Bene le ho trovate, ma sono uno fortunato, Penso a quanti – e sono tanti che per un motivo o per l'altro non sono cosi fortunati come me. Invito, pertanto, ognuno di voi a diventare mani tese per qualcuno che ne abbisogna. E vi invito, inoltre, a ricercare e leggere per intero questo articolo, io ne ho citato i passaggi che più ho sentito ' miei” e che per esigenze di spazio ho dovuto abbreviare, ma che comunque mi hanno trasmesso non solo speranza, ma lo sprone ad essere speranza. Siatelo anche voi, grazie.