Il progetto del governo di mandare i migranti nei centri in Albania è sicuramente congelato. Di fronte alle difficoltà di implementazione del Protocollo Italia- Albania (che prevede il trasferimento in Albania, per identificazione e valutazione delle richieste di asilo, dei migranti soccorsi dalle autorità italiane in mare), tempo fa il presidente di Italia Viva, Matteo Renzi, aveva proposto un’idea – per ora respinta dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni – riguardante la conversione dei centri albanesi in vere e proprie carceri in cui trasferire detenuti di nazionalità albanese attualmente reclusi in istituti penitenziari italiani. Comunque sia, anche questo piano appare altrettanto problematico.

Secondo Antigone, tale proposta presenta numerosi profili di criticità sia sul piano giuridico sia su quello dei diritti umani, risultando profondamente contraria ai principi di non discriminazione e al rispetto dei diritti fondamentali delle persone detenute.

L’ipotetica costruzione di carceri italiane in Albania richiama alla memoria il controverso accordo siglato tra Danimarca e Kosovo nel 2021. In quell’occasione, i due governi stabilirono che 300 detenuti, già in esecuzione della pena nelle carceri danesi, sarebbero stati trasferiti nel carcere di Gjilan, in Kosovo.

L’accordo prevedeva l’avvio delle operazioni dal primo trimestre del 2023 per una durata iniziale di cinque anni, rinnovabili, con un contributo annuo di 15 milioni di euro e un pagamento iniziale di 5 milioni destinato all’adattamento delle strutture.

Pur stabilendo che «il Regno di Danimarca sarà responsabile dell’esecuzione delle sentenze secondo le leggi e le obbligazioni internazionali del Regno», il testo lasciava aperte numerose questioni, come la responsabilità per i comportamenti dei detenuti e del personale di custodia, nonché la nazionalità degli addetti.

Era chiaro che il trasferimento avrebbe riguardato esclusivamente detenuti stranieri, escludendo i cittadini danesi, che sarebbero rimasti entro i confini nazionali. Inoltre, i detenuti trasferiti avrebbero dovuto rientrare in Danimarca al termine della pena per essere successivamente espulsi verso i Paesi d’origine. Antigone, insieme alla World Organisation Against Torture (OMCT), all’European Prison Observatory e all’International Rehabilitation Council for Torture Victims (IRCT), aveva già evidenziato le principali criticità legate a un progetto di outsourcing penitenziario di questo tipo, sottolineando che gli obblighi in materia di diritti umani non possono essere esternalizzati. A tre anni dalla firma dell’accordo, il progetto non è ancora stato completamente realizzato.

Analogamente, nel caso italiano, le complessità giuridiche e operative potrebbero creare un pericoloso precedente.

Se, per ipotesi, il governo dovesse convertire in carceri i centri di Shëngjin e Gjader, costati oltre 670 milioni di euro, secondo Antigone tale delocalizzazione carceraria violerebbe numerosi diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana, dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e dalle regole internazionali, come le Mandela Rules.

Partiamo dal diritto alla rieducazione e dal principio di non discriminazione. L’articolo 27 della Costituzione italiana stabilisce che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato. Secondo Antigone, in un carcere albanese mancherebbero le infrastrutture e i programmi necessari per garantire un trattamento rieducativo efficace. Inoltre, le dure condizioni delle carceri albanesi, già criticate dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT), configurerebbero una discriminazione rispetto ai detenuti che scontano la pena in Italia. C’è anche il diritto alle relazioni affettive. Il mantenimento dei rapporti con i familiari è sancito dalla CEDU e dall’articolo 42 dell’ordinamento penitenziario italiano.

Tuttavia, molti detenuti albanesi in Italia hanno legami familiari e sociali sul territorio italiano, che verrebbero compromessi da un trasferimento in Albania. Senza dimenticare il diritto alla salute. Dal 2008, la sanità penitenziaria italiana è integrata nel Sistema Sanitario Nazionale, garantendo parità di trattamento tra cittadini liberi e detenuti. In Albania, queste garanzie non potrebbero essere rispettate, aprendo la strada a gravi disparità e possibili violazioni.

C’è il diritto all’istruzione e al lavoro. Elementi essenziali del trattamento rieducativo, l’istruzione e il lavoro potrebbero non essere garantiti. La mancanza di un sistema educativo e lavorativo strutturato comprometterebbe il reinserimento sociale dei detenuti. Ma l’aspetto ancora più grave è la difficoltà di rendere praticabile il sacrosanto diritto alla difesa.

L’articolo 6 della CEDU sancisce il principio di legalità e, con esso, il diritto alla difesa. La Direttiva 2013/ 48/ UE stabilisce inoltre il diritto a essere assistiti da un avvocato durante i procedimenti penali, a informare un terzo in caso di privazione della libertà personale e a comunicare con le autorità consolari. La Costituzione italiana, all’articolo 24, riconosce il diritto di difesa come inviolabile in ogni fase del procedimento, e la Corte Costituzionale lo ha definito un diritto supremo per le persone detenute (Sentenze n. 143/ 2013 e n. 18/ 2022).

Il trasferimento di detenuti albanesi in un carcere italiano situato in Albania potrebbe limitare significativamente l’esercizio di questo diritto, specialmente per chi non è ancora stato condannato in via definitiva. Anche per i condannati in via definitiva potrebbero sorgere difficoltà nel ricevere supporto legale per questioni legate all’esecuzione della pena o per denunciare abusi e violenze.

Infine, c’è il discorso della magistratura di sorveglianza, che avrebbe difficoltà a esercitare efficacemente il proprio ruolo in un contesto estero. Sebbene si affermi che le carceri situate in Albania sarebbero sotto giurisdizione italiana, è probabile che si crei una situazione di giurisdizione concorrente con quella albanese. La Corte Costituzionale albanese, riguardo ai centri di Shëngjin e Gjader per migranti, ha stabilito che la giurisdizione albanese continua a valere, coesistendo con quella italiana in materia di asilo. Questo suggerisce che, in caso di trasferimento di detenuti, la giurisdizione italiana potrebbe subire limitazioni, specialmente se fossero in gioco diritti fondamentali. Lo stesso discorso vale per le autorità di garanzia territoriali e nazionali, che potrebbero incontrare difficoltà nel garantire la tutela dei diritti delle persone detenute in un contesto simile.

Come propone Antigone nel documento, piuttosto che destinare decine di milioni di euro all’apertura di un carcere italiano in Albania, tali risorse potrebbero essere impiegate per migliorare le condizioni di vita e di lavoro nelle carceri italiane. Gli elevati costi legati al trasferimento dei detenuti, al personale penitenziario in missione, agli spostamenti dei magistrati di sorveglianza e degli altri operatori legali potrebbero invece essere utilizzati per assumere nuovo personale negli istituti penitenziari italiani, rafforzando le attività rieducative e migliorando le infrastrutture esistenti.

Una simile scelta permetterebbe non solo di risolvere alcune delle criticità attuali del sistema penitenziario italiano, ma anche di garantire un trattamento più equo e rispettoso dei diritti fondamentali per tutte le persone coinvolte.