PHOTO
Il rientro in scena sarà spettacolare. Con la regia di Rocco Casalino, che in queste cose è un maestro, si può scommettere a colpo sicuro. Ma anche senza le sue sapienti arti, lo spettacolo sarebbe stato comunque garantito. Giuseppe Conte era tornato in camerino nelle vesti del politico più popolare del Paese, al termine di una crisi nella quale tre partiti che bastano a fare maggioranza alla Camera e quasi anche al Senato lo avevano trasformato in una bandiera: “Conte o morte”. Non è andata così. Quei tre partiti, M5S Pd e LeU, nonostante la defenestrazione sono oggi tutti nel nuovo governo. Ma la cacciata si è lasciata dietro, tra i rappresentanti e tra i rappresentanti soprattutto 5S e LeU, una scia di malumori e risentimenti ben più ampia e profonda di quanto non appaia: le “vedove di Conte” non sono solo una pittoresca invenzione giornalistica. Ora, dopo mesi di quasi totale assenza, dopo una rissa con Beppe Grillo che gli ha fatto perdere qualche punto nella hit parade dei più dove comunque è sempre in posizione altissima, dopo una pranzo a base di spigola a Marina di Bibbona con Grillo, l' “uomo più popolare del Paese” (secondo la nota definizione di uno che di popolarità se ne intende, sia pure per difetto, come Massimo D'Alema) sta per tornare sul palco. La foresta di telecamere sempre accese è sicurissima. Cronisti e commentatori ci andranno a nozze. Ma la vera sfida, per l'avvocato pugliese, comincia solo ora. Se conosce la politica, o se ne ha imparato a proprie spese la dura lezione, sa che i fasti passati non gli serviranno a niente. Puntare sui consensi accumulati da palazzo Chigi sarebbe un calcolo suicida. A palazzo Chigi Conte era un uomo senza partito: in fondo non troppo diverso, come ruolo almeno, da Mario Draghi. Ci teneva a far sapere spesso e volentieri di non avere in tasca la tessera del M5S, sgusciava ogni volta che qualche importuno provava a identificarlo in un modo o nell'altro: di destra o di sinistra, giustizialista o garantista? Sciocchezze. Il compito di un premier senza tessera e senza alcuna esperienza politica è governare bene, non prendere parte e partito. È saper amministrare “nell'interesse esclusivo del Paese”, come inossidabile retorica comanda. Da domani, anzi da lunedì quando debutterà ufficialmente incontrando Mario Draghi, Conte dovrà invece prendere appunto partito. Schierarsi. Fare battaglie. Assumere decisioni spesso difficili. Scegliere. Dall'amministrazione è tagliato fuori: il “bene del Paese” deve farlo nelle vesti del capo fazione, non più in quelle del premier che si dipinge come “al di sopra delle parti”. Altro film. Ruolo nuovo e tutto diverso. Se saprà interpretarlo Conte diventerà davvero una presenza politica centrale, forse determinante nei prossimi anni. Se si rivelerà miscast, la persona sbagliata per quella difficile parte, tornerà in camerino e stavolta per sempre. Ma non è il solo per cui sta per scoccare il momento della verità. Mario Draghi sin qui ha avuto vita facilissima. Stampa e commentatori gareggiano per osannarlo. L'opposizione parlamentare abbaia poco e morde meno di un cucciolo. La maggioranza mugugna, qualche volta sul serio, spesso solo per scena, ma scatta allo schioccare di dita del campionissimo. L'ingresso di Conte cambierà le cose e le cambierà subito, sulla riforma della giustizia. Il neoleader dei 5S invocherà modifiche radicali alla legge: non è un'opzione ma una scelta obbligata. Sarà come aprire le gabbie. Senza più quel vincolo di lealtà al testo votato in Cdm sul quale non a caso Draghi aveva martellato, ognuno presenterà le proprie modifiche, e la maggioranza, saltata la mediazione, diventerà un corpicino tirato da destrieri che galoppano in direzione opposta. Ad alto rischio di squartamento. In questi casi, di solito, presidenti del consiglio anche molto meno forti e decisionisti di Draghi se la cavano riportando l'ordine a suo di fiducia. Stavolta però vorrebbe dire rendere inevitabile un cozzo frontale proprio con Conte. Anche la faticosa ricerca di una nuova mediazione e di un diverso punto di equilibrio tra le anime opposte della maggioranza implicherebbe però rischi grossi, prezzi salati. Una volta accertato che le scelte del Cdm non sono il punto d'arrivo ma quello di partenza per la lunga e prevedibilmente estenuante mediazione tra i partiti, il modello si ripeterebbe a ogni riforma. La tabella di marcia da guerra lampo di Draghi si trasformerebbe in una chimera. Sin qui anche Draghi non ha dovuto far altro che amministrare. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi dovrà anche lui fare politica e anche per lui la prima vera prova sarà questa.