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«Ci sono stati fiumi di giornali per mesi e mesi, poi dopo l’assoluzione i soliti due articoli e basta...», dice Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta, prima di sciogliersi in un fiume di parole per raccontare il suo incubo. L’incubo di un uomo innocente che ha trascorso 909 giorni in custodia cautelare con l’accusa di concorso esterno prima di sentire riconosciuta la propria innocenza, dopo una prima condanna a 10 anni. Momenti terribili, tra carcere e domiciliari, compresi 45 giorni in isolamento. «Erano cinque passi per quattro, li contavo. E mi chiedevo tutti i giorni perché - dice al Dubbio -. Ma non ho mai trovato risposta».
Come si sente ora che è stato assolto?
Inizialmente c’è stato un crollo. Fin dal primo giorno speravo di sentire quelle parole, ma dopo il primo grado c’era tanta paura. Dopo sette mesi di carcere, l’isolamento, i cinque no alla richiesta di domiciliari, da incensurato… È come avere un demone dentro che ti massacra. Quel giorno è stato fantastico, perché avevo al mio fianco la mia famiglia, che mi ha sorretto ogni giorno: mia madre e i miei due fratelli, uno dei quali è il mio avvocato. Ma tutti i giorni, per 909 giorni, mi sono chiesto: perché?
E si è dato una risposta?
È difficile rispondere. Io verniciavo i bagni pubblici con i ragazzi disabili nei quartieri, portavo gli anziani in soggiorno... A capodanno 2018, 20 giorni prima di essere arrestato, ho servito loro, assieme ad altri ragazzi, la cena. Questo, per me, era il mio mandato politico. Ecco perché non capivo. Mi chiedevo come fosse possibile, leggendo le carte, tenermi dentro. Non c’era un elemento che confermasse un’accusa infamante e devastante come il concorso esterno in associazione mafiosa. Mi aspettavo che qualcuno, leggendo, lo avrebbe capito, ma non accadeva. Eppure non ho mai aiutato qualcuno a scapito di qualcun altro. Non c’erano storie di droga, di armi, di appalti, di soldi. Anzi, vengo da una famiglia umile, ho fatto qualsiasi lavoro: il cameriere, il gelataio, il cantoniere, pulivo le scale… Ero convinto al 100% che la verità sarebbe venuta fuori in primo grado. Ma ad Aosta sono stato anche deriso.
In che modo?
In famiglia siamo tre fratelli. Mia madre, casalinga, cuciva la notte, noi ci alzavamo alle cinque del mattino per pulire le scale per pagare le spese condominiali, abbiamo fatto qualsiasi lavoro. Mio padre è partito per davvero con la valigia di cartone da San Giorgio Morgeto, in Calabria. Ho raccontato tutte queste cose durante il processo e per la Corte farlo è equivalso a deridere e prendere in giro i giudici. Ma era solo la verità.
Le sue origini calabresi, secondo lei, hanno influito?
Sicuramente, è inevitabile. Io sono nato ad Aosta, come mia madre, ma tra il mio Comune e quello in cui è nato mio padre c’era una “carta dell’amicizia” che risaliva alle precedenti amministrazioni. Ma date le mie origini ero io il rappresentante della giunta che si recava a San Giorgio per la festa patronale. A mie spese, perché l’ho intesa sempre così la politica. Ma tutto ciò non è stato considerato, anzi, per i giudici di primo grado avrei messo il timbro della ‘ndrangheta sui quartieri. Un'accusa devastante per me.
Cosa ricorda del giorno dell’arresto?
Alle 3.15 del mattino, quando abbiamo sentito il citofono, ho guardato mia madre e le ho detto di sedersi: il primo pensiero è stato che Sandro o Cosimo, i miei fratelli, avessero avuto un incidente. Non potevo immaginare minimamente potessero cercarmi per questo. Sono entrati, mi hanno bloccato e hanno perquisito casa. Mia madre urlava, ma non potevo avvicinarmi. Poi sono andato in caserma e mi hanno detto che mi avrebbero portato in carcere.
Cosa ha pensato?
Che fosse uno scherzo. Non mi hanno nemmeno portato ad Aosta, ma a Biella. E poi basta, non hai più informazioni: vieni buttato in carcere, ti spogliano, ti perquisiscono… Non riesci nemmeno ad andare in bagno, perché ti blocchi. Sei umiliato, non esisti più come uomo. Vieni completamente annientato. E poi c’è stato l’isolamento per 45 giorni.
Com’è stato?
Gli agenti hanno avuto una sensibilità meravigliosa. Ho trovato delle persone che capivano il mio dramma, perché forse capivano di avere davanti una persona perbene. E messo in quelle condizioni, in cui perdi la dignità e la voglia di vivere, è tanto. Ho visto mia madre e mio fratello dopo 33 giorni: ero convinto che non volessero più vedermi. Che ne sapevo delle regole da seguire quando ti trovi carcere per accuse del genere? Fortunatamente mio fratello Sandro, essendo il mio avvocato, veniva a trovarmi costantemente. Ma alla fine ti ritrovi devastato. Ero in una cella dove contavo cinque passi per quattro, dove avevo solo l’acqua fredda, senza radio, con una tv che non si vedeva, un letto in ferro e un materasso impossibile. Ma gli agenti non potevano farci nulla. Avevo talmente freddo che quando veniva mio fratello gli mettevo le mani sulla pancia per riscaldarmi. Dopo due settimane ho provato ad uccidermi. Ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo. Perché non aveva più senso la mia vita.
E perché ha cambiato idea?
Perché ero innocente. E avevo la mia famiglia vicina e la fede. Questo mi ha aiutato ad andare avanti. Mio fratello mi ha chiesto: c’è qualcosa che non so? Gli ho giurato che non c’era nulla. E poi mi ha fatto giurare sulla tomba di mio padre che non mi sarei tolto la vita. Ero convinto del mio giuramento, però ci sono momenti in cui perdi tutto. Per un innocente anche un’ora in più in carcere è devastante. Ho sentito fisicamente quella violenza e ancora oggi sento il bisogno di farmi la doccia per togliermi quella sensazione di dosso. Poi ho avuto un altro crollo il 16 settembre, il giorno della sentenza ad Aosta.
Com’è andata?
Sono arrivato lì sicuro di essere assolto. La gente fermava mio fratello e mia madre per strada per esprimere solidarietà, le persone sono venute davanti al tribunale ad applaudire. Per i giudici era un segnale della ‘ndrangheta, invece erano solo persone che capivano il dramma della mia famiglia. Quando ho sentito di essere stato condannato a 10 anni e 600mila euro di risarcimento sono uscito, sono tornato a casa e una volta aperta la porta ho tirato dritto verso il balcone: ero deciso a buttarmi di sotto. Abitiamo ad un quarto piano basso, sotto c’è l’erba e per l’ennesima volta il pensiero è andato a mia madre, che ha 80 anni, e mi sono fermato. Mi sono detto: ma se mi butto e rimango paraplegico? Sarebbe stato un ulteriore peso sulla mia famiglia, per quello non l’ho fatto. Ma io sono fortunato, ho una famiglia meraviglia, chi non ha nulla cosa fa? Non so cosa farò, ma mi dedicherò a chi non ha queste opportunità. E non parlo di soldi: noi ci siamo indebitati fino alle orecchie. L’altra cosa che ti devasta è che fino al giorno prima sembra che i tuoi colleghi politici ti apprezzino, il giorno dopo ne dicono di cotte e di crude. Questo fa male.
Ora va meglio?
Rimane la paura di parlare, di uscire. La gente ti saluta, ma tu rimani inchiodato al meccanismo dei domiciliari, durante i quali non puoi avere contatti con nessuno. Non riesci ad uscire da quello schema. Quello che mi aiuta a superare questo demone è la voglia di tornare a fare politica come l’ho sempre fatta, in mezzo alla gente. Quella che ha detto, sin dall’inizio, che non c’entravo nulla. Ci sono pure le intercettazioni in cui si parlava di me come persona onesta, ma non sono state considerate.
Le hanno contestato il rapporto con Antonio Raso, che è stato condannato come uno degli esponenti di punta della locale di ‘ndrangheta ad Aosta. Come ha spiegato la vostra conoscenza?
Dico solo che Aosta è una realtà piccola: conoscevo tutti e parlavo con tutti. Era una conoscenza come un’altra, frequentavo il suo ristorante, dove andavano tutti, comprese le forze dell’ordine e i magistrati.
Che idea si è fatto della giustizia, ora che l’ha vista da vicino?
Ho ancora fiducia, perché in due occasioni la magistratura mi ha salvato: quando, dopo sette mesi, un giudice mi ha concesso i domiciliari e ora, in appello a Torino, dove una Corte ha letto gli atti e ha ascoltato mio fratello, che nell’udienza del 21 giugno, in tre ore, ha smentito punto per punto quanto detto dal procuratore. Abbiamo prodotto centinaia di documenti, ma mi sentivo dire sempre no, cinque volte no. E quelle sono legnate. Ho fiducia, ma bisogna far in modo che i giudici ascoltino, che non abbiano pregiudizi e siano lontani da qualsiasi contatto con l’accusa. Non può esistere che una Corte relazioni con l’accusa: c’è disparità con la difesa. Avevo quasi l’impressione di trovarmi di fronte ad una nave gigante mentre io ero piccolino e provavo a spingere, ma non succedeva nulla. Il mio fascicolo non è un fascicolo, è una persona. Dov’è la presunzione di innocenza? Io ho letto oltre 72mila pagine, per tre volte. Ho ascoltato tutte le intercettazioni, anche dei procedimenti precedenti, e quando in aula ho detto di averlo fatto e di non aver trovato nulla a mio carico il giudice mi ha deriso. L’unica cosa che chiedevo era che qualcuno leggesse quelle carte e ammettesse quella terribile ingiustizia. La mia paura era di non arrivare alla fine e che non ci arrivasse mia madre. I giudici dovrebbero entrarci in carcere, per capire cos’è e che in carcere ci deve andare solo chi è colpevole.
Cos’altro ricorda del carcere?
Che i poliziotti ci portavano le arance e le mele ed io, che sono appassionato di statistica, contavo gli spicchi e i semi e facevo le proporzioni. E poi che c’era un uomo che stava dentro da 27 anni e mi diceva: io non oso immaginare cosa tu abbia provato sapendo di essere innocente. Lui ne aveva fatto di cotte e di crude, aveva gambizzato, ucciso e voleva ascoltare le mie parole, cercare di capire. Spero di riuscire a togliermi tutto questo di dosso e che non ricapiti più a nessuno. Non mi importa nulla dei risarcimenti, quello che fa male è che nessuno ridarà a mia madre due anni e mezzo di vita. Era talmente disperata che ha scritto al Papa. E lui ha risposto, dicendole che le stava vicino e di continuare ad avere fede. Ora spero di tornare a vivere. Come dico sempre a mia madre, io ho 51 anni: gli ultimi tre non li considero.