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Quando Franco Basaglia decise di mettere in pratica l’apertura dei cancelli nel manicomio di Gorizia, accadde che un paziente con problemi psichiatrici, una volta avuto la libera uscita, commise un omicidio spingendo dalle scale una donna. Ci fu indignazione, tanto che Basaglia fu costretto a lasciare l’istituto e passò a Parma, e due anni dopo fu nominato direttore del manicomio San Giovanni di Trieste. Il resto è storia. Quell’unico omicidio fortunatamente non condizionò il Parlamento italiano che qualche anno dopo decise di approvare la legge 180 che ha superato l’istituzione manicomiale. L’abolizione del manicomio ha superato lo scoglio del caso unico di cronaca, valorizzando i dati reali che dicono tutt’altro. Cosa che non accade con l’istituzione penitenziaria, la quale ha avuto una continua evoluzione fino ad arrivare nel periodo dell’Illuminismo nel quale si registra una profonda svolta, in quanto si rifiuta il principio punitivo della pena in carcere adottando quello basato sulla rieducazione e sull’umanizzazione, teso al rispetto della condizione personale del reo. Ma siamo rimasti ancora lì, in quanto manca una ulteriore evoluzione: il superamento dell’istituzione penitenziaria. Il primo scoglio da superare è quello del quale lo psicologo Paul Bloom, professore dell’università di Yale, parla nel suo libro dal titolo “Contro l'empatia. Una difesa della razionalità”. Vale per ogni ambito quando la politica si trova a fare delle scelte. Bloom dimostra quanto l’empatia ci porta a esprimere giudizi sbagliati e prendere decisioni irrazionali. In sostanza spiega che l’empatia riflette preconcetti e propensioni, similarmente al pregiudizio. Ad esempio, risulta più facile empatizzare con chi è più vicino o più simile a noi. Un ulteriore limite dell’empatia deriva dal fatto che tende a focalizzarsi su individui specifici, ed è quindi insensibile ai dati statistici (effetti delle nostre azioni su gruppi di persone) e alle stime costi-benefici. Ed ecco che, tra gli esempi, Bloom nel suo libro racconta anche un episodio sul carcere. Nei primi anni 90, un senatore americano riuscì a far approvare una legge che di, fatto, allargò le misure alternative alla detenzione nei confronti di una larghissima platea di reclusi. Ma accadde un episodio che creò forte indignazione. Uno dei detenuti scarcerati commise un brutale omicidio nei confronti di una donna. A seguito dell’evento ritirarono subito quella legge, nonostante i dati statistici rivelassero che quella misura funzionava: eliminava il sovraffollamento e riduceva la recidiva. Di fatto, è bastato un caso terribile che ha suscitato empatia, mentre la statistica non ha commosso nessuno. Eppure, ritornando in Italia, i dati rivelano che il carcere non serve allo scopo che il sistema gli assegna ufficialmente. Non garantisce nessuna giustizia, la società non è protetta meglio grazie a esso e non ha effetti tali sui detenuti da produrre una riduzione della criminalità. Molti pensano che in carcere ci siano principalmente stupratori, assassini e mafiosi, mentre la stragrande maggioranza dei detenuti, sono dentro per reati contro il patrimonio, droga e reati minori. Dai dati del ministero della Giustizia, emerge che nell’arco dell’anno 2021, risultano più di 31mila detenuti per reato contro il patrimonio, quasi 20 mila per droga, 8685 contro la pubblica amministrazione, quasi 4000 sono reati relativi alle contravvenzioni. Mentre, 7.274 sono reati mafiosi e 23mila contro la persona. Questo ci spiega, che se si puntasse sulla pena non carceraria per reati non violenti, si ridurrebbero vertiginosamente il numero delle carceri in Italia. Non solo. Dal rapporto elaborato lo scorso anno dal Consiglio d’Europa, ovvero Space 2020, si evince che solo nel 2019, l’amministrazione penitenziaria ha avuto bisogno di quasi 3 miliardi di euro. È in media il costo annuale per “sostenere” le carceri italiane. Se si applicasse una riforma che gradualmente superi l’istituzione attraverso misure non detentiva, miliardi di euro potrebbero essere dirottati per le comunità, il lavoro e gli alloggi per scontare la pena, l’allargamento del servizio sociale. Oltre alla valorizzazione del cosiddetto “stato sociale”, dove appunto la società si prende carico delle persone più vulnerabili. Non è utopia, anche perché le raccomandazioni internazionali, da anni, puntano in quella direzione. Ovvero la necessità di sviluppare strategie in materia di esecuzione penale esterna e probation. Quest’ultimo, secondo la definizione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per mezzo delle Raccomandazioni, descrive l’esecuzione in area penale esterna di sanzioni e misure, definite dalla legge e imposte d un autore di reato. Comprende una serie di attività ed interventi, tra cui il controllo, il consiglio e l’assistenza, mirati al reinserimento sociale dell’autore di reato e volti a contribuire alla sicurezza pubblica. Noi l’applichiamo fin dall’ordinamento penitenziario del 1975, con l’aggiunta più recente di una forma di "probation giudiziale", innovativa nel settore degli adulti, e rappresentata dalla messa alla prova, consistente nella sospensione del procedimento penale nella fase decisoria di primo grado per reati di minore allarme sociale. Il solco verso il superamento del carcere è già tracciato da tempo, basterebbe proseguirlo e andare fio in fondo. Per questo è utile, ancora una volta, ritornare al libro di Paul Bloom. Ci esorta a dare più spazio alla ragione in un mondo in cui la pancia è spesso al primo posto nel determinare il nostro comportamento. Naturalmente il monito è rivolto soprattutto alla classe politica che deve assumere decisioni di vitale importanza e non può farlo per rispondere empaticamente agli umori della popolazione, molto spesso veicolati dagli articoli di cronaca. In politica, soprattutto per le grandi riforme, deve contare la statistica e non i singoli casi. Per il superamento del carcere, è fondamentale.