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Accertato che l’ex ministro Giovanni Conso non sapeva della presunta trattativa in corso, ma nello stesso tempo si sarebbe sentito minacciato. Questa è in sintesi la spiegazione della Corte di Palermo. Ci sono più capitoli sul 41 bis nella lunghissima motivazione sulla sentenza di primo grado. Passaggi volti a confermare che ci sarebbe stato un ammorbidimento usato come segnale alla mafia da parte del Governo minacciato. Ricordiamo che non c’è il reato di trattativa, quindi il capo d’imputazione è «Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario». Diversi passaggi di difficile interpretazione, nonostante si parla di una verità ' logico- fattuale' e non di una certezza suffragata da prove inoppugnabili.
Uno di questi segnali sarebbe stata la nomina del vice direttore del Dap voluta dal presidente della Repubblica Scalfaro. In questo caso parliamo del Governo Ciampi, il secondo corpo politico che sarebbe stato minacciato. «Si ha quindi conferma – si legge nella motivazione - che il vice direttore del Dap, individuato dal Ministro Conso, non era gradito al Presidente Scalfaro perché ritenuto “troppo duro” ». Qui scatta la prima contraddizione. Il ministro Conso – secondo la tesi processuale della Trattativa – sarebbe stato colui che avrebbe ammorbidito il 41 bis, ma nello stesso tempo era colui che voleva un vicedirettore del Dap considerato “troppo duro” da Scalfaro. Nominarono – sotto indicazione di Scalfaro e del capo della polizia Parisi – il dott. Francesco Di Maggio, considerato dalle motivazioni, l’uomo che avrebbe dato l’apporto alla presunta attenuazione del carcere duro. Attenuazione che sarebbe stata ordinata – sempre secondo la motivazione – dall’ex ministro della giustizia Conso. Sì, proprio colui che in realtà – lo dice la motivazione stessa – avrebbe voluto un vicedirettore del Dap più “duro”.
Questa è una delle tante verità logico- fattuali. Dove però logica e fatti fanno a pugni tra loro. Una verità che teoricamente troverebbe conferma – sempre secondo la Corte – dalle testimonianze di tre testi considerati chiave, tra i quali Loris D’Ambrosio e Liliana Ferraro, all’epoca capo ufficio Affari penali del ministero della Giustizia. Quest’ultima viene addirittura messa sotto accusa dalle motivazioni, perché «ha negato qualsiasi conoscenza sulla nomina dei nuovi vertici del Dap nel giugno 1993» e secondo la Corte è «poco verosimile, stante il confermato rapporto di frequentazione col Di Maggio» . Ricordiamo che la Ferraro era una storica amica di Giovanni Falcone. Verrà poi ulteriormente bacchettata perché ha minimizzato «gli approcci del Ros con Ciancimino» e che solo il 14 novembre 2009 l’ex capo degli Affari penali ha parlato con la magistratura. Eppure, a questo punto, seguendo la logica della motivazione, anche Borsellino avrebbe minimizzato, visto che la Ferraro ne parlò con lui di questi contatti: l’ex magistrato ucciso barbaramente a via d’Amelio liquidò subito la cosa con una battuta «me ne occupo io», e preferì parlare con lei delle indagini su mafia e appalti. Questo si evince dalla testimonianza della Ferraro durante il processo.
Ritorniamo all’ex ministro Conso che non ha rinnovato alcuni 41 bis. Egli, come ha anche ricordato Luciano Violante – all’epoca dei fatti presidente della commissione antimafia - ha sempre detto che la sua scelta era basata su una sentenza della Consulta, la numero 1349 del 28 Luglio del 1993. «Se non ci fosse stata la speranzina allora tanto valeva rinnovare». Questa è però la frase che per l’estensore della motivazione «manifesta plasticamente e incontestabilmente il diffuso timore del Ministro di portare avanti la linea di fermezza di Ciampi». Ma nelle motivazioni è anche scritto che «Conso ha dichiarato di non aver mai saputo nulla della trattativa di mafia e dei contatti dei carabinieri con questa per il tramite di Ciancimino». Dichiarazioni sulle quali la stessa Corte scrive di non aver motivo di dubitare. Quindi, secondo le motivazioni, Conso dice la verità, ovvero che non ha mai saputo nulla della trattativa in corso, ma nello stesso tempo – sempre secondo la Corte - sapeva di subire minacce. Quindi, seguendo questa “logica fattuale”, si sarebbe sentito intimidito ma non era necessario che conoscesse il motivo per cui doveva sentirsi intimidito?
Per la Corte il reato di trattativa non esiste, ma esiste la minaccia e così si legge in sentenza che «è irrilevante che non sia stata rappresentata a Conso l’origine della esternazione di condizioni per porre il termine a quella contrapposizione frontale con lo Stato che aveva dato luogo a stragi». Ma quindi la Corte dove intravvede la minaccia? «Il timore che un male ingiusto potesse derivare dalla sua eventuale diversa decisione di prorogare i decreti 41 bis», a leggere la sentenza, balzerebbe «evidente» dalle sue dichiarazioni rese il 24 novembre 2010 quando il teste Conso, sentito, argomentava la decisione di non proroga del 41 bis con il richiamo alle decisioni della Corte Costituzionale sul tema ma, si legge sempre nelle motivazioni, pur a fronte di tali esternazioni, la Corte rintraccia «le vere ragioni della sua decisione di non prorogare» nella «speranza che una persona più equilibrata e meno esageratamente ostile», individuata in Bernardo Provenzano, «potesse prendere il posto di Riina».
Non le argomentazioni sulla necessità di tenere in conto la decisione della Corte Costituzionale che aveva dato un indirizzo sull’efficacia del regime, ma le dichiarazioni sulla “speranzina”, vengono intese come la prova della percezione di una minaccia.
Ma è una percezione, perché Conso – come conferma la Corte stessa - non sa della trattativa: l’accontentarsi per un Ministro della sola speranza costituisce però per la Corte la prova della manifestazione «plastica e incontestabile» del timore di Conso di portare avanti la linea della fermezza voluta da Ciampi e dal suo Governo.
Di segno opposto è la testimonianza di Violante, allora Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia sentito come testimone, che dichiarava di aver scritto al Ministro Conso nel 1993 per avere notizie sul 41 bis: nella lettera di risposta, acquisita in dibattimento come prova, il Ministro già allora rispondeva a Violante che «si stavano specificamente analizzando le pronunce di inefficacia dei provvedimenti di applicazione dell’art 41 bis come aveva indicato la Corte Costituzionale». I tempi non erano sospetti, il Ministro già dava conto delle ragioni delle notizie, che si erano diffuse sulla non proroga del regime dell’art. 41 bis, richiamando la necessità di tenere in considerazione la pronuncia della Corte Costituzionale, ma per la Corte d’Assise la risposta era «alquanto generica».