Non puoi parlare di carcere se non ci sei mai stato dentro; se, cioè, non ne conosci, dall’interno, le condizioni di precarietà e di invivibilità. Carceri: oggi divenute strutture ricettive in prevalenza vetuste e ammorbate da un sovraffollamento disumano. La sicurezza non è mai venuta meno. La vivibilità sì. Le patrie galere ospiterebbero oltre diecimila detenuti in più del consentito. Per i non addetti ai lavori, va spiegato che per “consentito” non si intendono celle individuali con annessi servizi, ma spazi minimi vitali calcolati in misura di tre metri quadrati per ciascun detenuto e servizi comuni. Caldo infernale e freddo glaciale inclusi. Va da sé che in uno scenario simile, i più fragili son quelli destinati a soccombere.

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Ma davvero i medici dicono la verità sui rischi di suicidio in cella?

L’Ansa fa sapere che ad oggi i suicidi in carcere sono già 65, con un incremento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Con buona pace, per loro, di ogni promesso programma di riabilitazione, Il decreto legge sulle carceri n. 92, di recente convertito in legge dalla Camera dei deputati, nonostante gli impegni assunti, non sembra aver toccato i tasti più dolenti del problema. C’é il compromesso della politica. Ma, le carceri son già compromesse.

L’incremento della dotazione organica del personale di polizia penitenziaria è un risultato. Infatti, poiché i tornelli del carcere sono comandati dai magistrati, anche agenti ed educatori finiscono per subire i disagi di una sovrappopolazione interna e dei disservizi che inesorabilmente questa produce.

Si interviene sul versante dei colloqui. Più colloqui telefonici. E va bene. Ma, ad invarianza di sovraffollamento, l’effetto pratico sarà un sovraffollamento telefonico aggiunto.

Statistiche recenti dicono che i reati diminuiscono, mentre i detenuti aumentano. Per sillogismo, si deve ammettere che qualcosa non va nella stessa legge penitenziaria, probabilmente perché superata dalla realtà oppure perché le misure alternative non vengono applicate in tempo reale.

Il decreto interviene sui meccanismi della liberazione anticipata, forse persino appesantendone la procedura e, comunque, senza apportare riduzioni di pena in più, come da altri auspicato, intravedendo in essa l’estremo rimedio a un male estremo. Crediamo che le pur meritevoli riduzioni di pena non abbiano la possibilità di contenere il sovraffollamento, sebbene in un contesto drammatico come quello presente la tentazione, se non la necessità, di farvi ricorso è forte. Assai nobile l’intento di fondo, ma il risultato sarebbe visto come un sedativo momentaneo e come tale criticato ed osteggiato.

Bene la previsione di attività socialmente utili, su base volontaria e senza remunerazione, all’interno della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale. I programmi dovranno essere attivati dalle amministrazioni pubbliche interessate e gestiti dall’ufficio per l’esecuzione penale esterna. La mancanza di un lavoro professionale non potrà più valere come motivazione per denegare l’affidamento al detenuto

sperimentabile all’esterno, che voglia rendersi utile per la collettività. È un risultato di non poco momento, nell’ottica della giustizia riparativa.

Ma, altro si poteva ancora fare.

Con minimi accorgimenti, si poteva intervenire sulla detenzione domiciliare svuota- carceri, quale misura strategica voluta dal legislatore del 2010, a favore dei detenuti sotto i diciotto mesi. Bastava velocizzarne le procedure, nel passaggio di carte dal carcere al magistrato di sorveglianza, e sgomberare il campo da prassi operative ritardanti, come quella di subordinarne l’applicazione all’esito dell’osservazione, benché non richiesto. Non son pochi i detenuti con pene brevi. Un ritardo operativo di mesi incide negativamente sull’intero sistema.

Esiste una misura alternativa al carcere poco conosciuta ed ancor meno applicata, chiamata semilibertà. Essa costituisce il primo, graduale passaggio dallo stato detentivo a quello libero.

Per questa sua particolarità e potenziale funzione, la semilibertà dovrebbe costituire la regina delle misure alternative e produrre un effetto deflattivo più che apprezzabile, senza spezzare il cordone ombelicale che lega ancora il detenuto al carcere, ed invece è relegata al ruolo di Cenerentola, a causa dei requisiti imposti, sproporzionatamente rigorosi ed anacronistici.

Tra l’altro, con la riforma Cartabia, la semilibertà è entrata a far parte, per unanime riconoscimento, delle pene brevi e può essere sostituita alla reclusione, sino a quattro anni, in sede di sentenza. Pertanto, non si comprende perché la consorella misura alternativa della semilibertà penitenziaria non debba essere parametrata secondo gli stessi limiti. Maggiore spinta applicativa della detenzione domiciliare svuota- carceri e rilancio della semilibertà arginerebbero il sovraffollamento e renderebbero più vivibile il pianeta carcere, il quale altro non è che l’altra faccia di un unico, stesso pianeta. Il nostro.