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CARCERE SAN VITTORE SALA ATTESA COLLOQUI
Da oltre 365 giorni, nelle carceri italiane si respira un’amara contraddizione: la sentenza della Corte Costituzionale (n. 10/2024) che riconosce il diritto dei detenuti ai colloqui intimi con i propri cari rimane lettera morta. Una promessa di umanità tradita, un diritto costituzionale ridotto a “carta straccia”. Per questo arriva una lettera coraggiosa – curata da Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti – che giunge come grido d’allarme dalle mura del carcere di Padova. È destinata al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e denuncia, con toni sentiti e inconfondibili, la persistente negazione del diritto ai colloqui intimi. La decisione storica della Consulta, che avrebbe dovuto restituire affetto e dignità alle persone detenute, appare oggi relegata a un mero strumento formale, trattata come “carta straccia” in un contesto dove il rispetto dei diritti fondamentali sembra sempre più lontano.
La lettera, redatta dalla redazione di Ristretti Orizzonti, ripercorre in modo dettagliato le parole e le azioni – o meglio, l’inazione – di un sistema che, pur avendo istituito il 28 marzo 2024 un gruppo di studio multidisciplinare incaricato di elaborare una proposta per rendere effettivo il diritto ai colloqui intimi, non ha ancora presentato risultati concreti. Il ministro Nordio, in una precedente dichiarazione, aveva illustrato come il gruppo avesse lavorato in collaborazione con il Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli Federico II per individuare spazi adeguati all’interno degli istituti penitenziari, definendo modalità, durata e frequenza degli incontri, sempre con l’obiettivo di garantire sicurezza e riservatezza. Tuttavia, a distanza di ulteriori mesi, l’attuazione pratica delle misure promesse sembra rimasta un obiettivo irraggiungibile, lasciando i detenuti in uno stato di angoscia e delusione.
Senza dimenticare i magistrati di sorveglianza come Fabio Gianfilippi ed Elena Banchi, i quali hanno emesso ordinanze per obbligare singoli istituti (Terni, Parma) a garantire spazi riservati, segnando un contrasto stridente con l’inerzia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il Dap, come ha reso noto Il Dubbio, si era opposto per quanto riguarda il detenuto di Parma. Il magistrato di sorveglianza, ha rigettato subito l’istanza.
Le testimonianze
La lettera si fa veicolo di testimonianze dirette, in cui le voci dei detenuti raccontano una realtà fatta di sofferenze quotidiane, di affetti negati e di una “desertificazione affettiva” che condanna le famiglie a vivere un’eterna separazione. In un lungo e struggente racconto, Ignazio Bonaccorsi, detenuto che sconta l’ergastolo da 33 anni, esprime il dolore di chi ha visto «tante famiglie distrutte, separazioni e matrimoni andati in frantumi» a causa dell’impossibilità di avere contatti fisici significativi con i propri cari: «Da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte, separazioni, matrimoni andati in frantumi e di tutti questi disastri, le conseguenze le subiscono i figli. C’è una sentenza della Corte Costituzionale che dice che un detenuto ha il diritto di usufruire dei colloqui intimi con la moglie o la compagna, ma da un anno non ne sappiamo più niente: ci hanno detto che c’è un tavolo con diverse figure istituzionali che se ne sta occupando, ma niente si muove, per sapere qualcosa di positivo quanto dobbiamo aspettare? Quando vengono fatte nuove leggi restrittive “Contro di noi” entrano subito in vigore, mentre quelle a nostro favore si bloccano».
Un altro detenuto, Salvatore Fani, nel raccontare la sua esperienza, aggiunge il dolore di un padre che si interroga sul futuro di suo figlio, costretto a crescere solo con la madre e a dover spiegare a un bambino di cinque anni perché non possa avere un fratello o una sorella: «Per me il carcere vero non è la struttura detentiva, ma la prigione dell’assenza degli affetti. La mia famiglia viene devastata da una politica che, invece di sostenere il diritto all’intimità, ci priva della possibilità di mantenere un legame umano e fondamentale. La mia promessa a mio figlio di un futuro migliore svanisce ogni giorno in un’ennesima porta chiusa».
Anche Mattia Griggio, detenuto da un anno presso la Casa di reclusione di Padova, racconta con tono commosso il disagio di un genitore “l’unico possibile” per i suoi tre bambini, costretto a vedersi solo per poche ore in spazi piccoli e controllati, sottolineando come «l’assenza di incontri intimi non sia solo una questione burocratica, ma una ferita aperta che minaccia lo sviluppo psicologico dei più piccoli e alimenta un clima di disperazione che può portare persino al suicidio». Jody Garbin, infine, testimonia il dramma di chi ha perso l’amore e la stabilità familiare: «Io, detenuto dalla mia condanna a 18 anni, ho visto la mia famiglia disgregarsi: dopo 14 anni di convivenza, la separazione è diventata inevitabile, perché non si può pretendere che una moglie rimanga fedele se l’incontro si riduce a tre giorni all’anno, con un abbraccio e un bacetto come unici segni di affetto. La sentenza della Corte Costituzionale prometteva un diritto fondamentale – quello di dare e ricevere affetto – e invece, dopo un anno, la mia speranza si è infranta ancora una volta».
Le promesse tradite
Le parole dei detenuti non sono solo un'accusa contro l'inerzia istituzionale, ma un invito al ministero a riconsiderare l'umanità e il buon senso. Le testimonianze, raccolte in un unico flusso di dolore e speranza, sottolineano come il riconoscimento formale del diritto ai colloqui intimi debba tradursi in concrete misure strutturali che non solo rispettino la dignità degli individui, ma salvaguardino il tessuto familiare, spesso già logorato da anni di politiche restrittive. Le parole dei detenuti di Padova dipingono un quadro di disperazione, in cui l'assenza di amore e contatto fisico diventa un ulteriore strumento di punizione, peggiorando il clima di isolamento e abbandono che caratterizza la vita carceraria.
Mentre il Gruppo di studio si perde in attese e relazioni tecniche, la sofferenza umana continua a fare da monito per una politica che, pur sapendo della sentenza della Corte Costituzionale, sembra non avere la volontà – o forse il coraggio – di fare il necessario per riportare in vita quel diritto inalienabile. La lettera, con il suo tono appassionato e carico di testimonianze vere, lancia un appello a un cambiamento urgente: non si tratta solo di una questione di conformità legale, ma di un imperativo morale per non distruggere ulteriormente le famiglie e l’umanità di chi, nonostante tutto, cerca ancora di amare.