PHOTO
populisti
Febbraio 2018, vigilia elettorale. Movimento 5 Stelle favoritissimo, Lega in ascesa. In caso di governo pentastellato si vocifera di un incarico per il più intransigente dei pm antimafia, Nino Di Matteo. Molti vorrebbero addirittura Piercamillo Davigo, se non come premier almeno come guardasigilli. Ne verrà un esecutivo gialloverde senza toghe ma con una fortissima trazione giustizialista. Nel giro di pochi mesi, arrivano botte allo Stato di diritto da restare intontiti, dal blocca-prescrizione alla legge che abolisce l’abbreviato per i reati da ergastolo. La sola riforma “garantista” è quella che limita la punibilità dell’eccesso di legittima difesa. Garantisti sì, ma con chi spara. Tre anni e mezzo dopo, ottobre 2021. Crolla il Movimento 5 Stelle. Ovunque, ma soprattutto nelle città in cui esprimeva il sindaco, Roma e Torino. Débacle assoluta anche per la Lega, nel frattempo sfiorata da languori garantisti (vedi il referendum) ma sempre pronta a risfoderare l’istinto panpenalistico (vedi l’esultanza di Matteo Salvini per la sentenza-choc su Mimmo Lucano). Uomo del giorno è un mancato vincitore, Carlo Calenda, autentico garantista, leader del partito, Azione, in cui milita l’alfiere delle battaglie per il diritto di difesa e la presunzione d’innocenza, Enrico Costa. Dallo straordinario pacchetto di consensi raccolto da Calenda (la sua lista, con il 19%, è la più votata della Capitale) dipende l’esito del ballottaggio fra Michetti e Gualtieri. A Napoli viene spazzata via l’era di un altro magistrato intransigente, Luigi de Magistris: la sua candidata, la pur generosa Alessandra Clemente, è quarta, superata anche da Antonio Bassolino (19 assoluzioni in 19 processi, do you remember?). Il trionfo di Manfredi travolge un altro pm, tuttora arruolato in magistratura, Catello Maresca, campione dell’antimafia come lo era Di Matteo. In realtà de Magistris straperde anche come candidato governatore in Calabria. Dove vince il più garantista dei partiti, Forza Italia, con il capogruppo alla Camera Roberto Occhiuto. Ovunque il Pd è forte. Il Pd che, insieme a Marta Cartabia, ha mediato sulla prescrizione, con irriducibile pazienza, fra Bonafede e gli altri partiti di governo. Il Pd che si sforza di riformare il Csm a costo di smentire lo storico legame con la magistratura progressista. Serve altro, per capire quante cose siano cambiate, nel rapporto fra politica e giustizia, da quel febbraio 2018?Un dato è certo: i proclami panpenalistici non bastano più a incantare l’elettorato. Ed è svanito il fascino della toga. Anzi, se c’è un leader rigenerato dal voto amministrativo è invece quel Silvio Berlusconi che porta a casa un governatore e assiste al naufragio della prospettiva sovranista. Mentre fra gli ex magistrati che tentano la sorte nelle urne fa cilecca anche Luca Palamara, che non esce certo confortato nella scelta di buttarsi in politica. Spietati come de Magistris o ammiccanti come l’ex presidente Anm, non fa differenza: si perde comunque. Nell’Italia post covid scopriamo dunque che anche il giustizialismo tira meno, non solo il populismo genericamente inteso. È come se gli italiani, seppur non ancora del tutto sedotti dal nuovo vento garantista, volessero sentir parlare finalmente d’altro. Come se chiedessero alla politica di trascinarli fuori dalla pandemia, di risolvere i problemi concreti e offrire un futuro. Ed è come se, di fronte a un governo guidato dalla mano ferma e decisa di Mario Draghi, finalmente l’elettorato riscoprisse il gusto di scommettere sulla politica, anziché sugli slogan. Pensate un po’: dopo un decennio abbondante di antipolitica, di populismo capace di contagiare anche leader moderati come Matteo Renzi (fu lui a bloccare, sempre nel fatidico febbraio 2018, la riforma del carcere targata Orlando), forse ci si è accorti che se la politica affronta le urgenze concrete non c’è più bisogno di pretendere che offra, per surrogato, risposte manettare. E a voler andare avanti nel discorso, forse si capisce come il giustizialismo degli anni passati, del governo gialloverde, sia stato in fondo l’alibi di chi non sapeva offrire risposte politiche vere. Comprendiamo una volta di più come le leggi a costo zero sulla prescrizione o sull’ergastolo servissero a coprire il vuoto nella soluzione dei problemi reali. E scopriamo che la stessa opinione pubblica, di fronte al dramma della pandemia e a un esecutivo che mostra di saperlo affrontare, ha ben altre priorità che le imprese della magistratura. A quasi trent’anni da Mani pulite, la politica pare aver riacquisito l’autorevolezza del proprio primato. E guarda caso, i pm-tribuni e le loro claque vanno contemporaneamente in dissolvenza. Sia quando a candidarsi sono i magistrati in prima persona, sia quando a perdere sono partiti che, a parte gli slogan e le leggi manettare, possono vantare ben poche conquiste. Se ne può cogliere anche un auspicio per la più politica delle riforme ancora da scrivere in materia di giustizia, quella sul Csm. Stavolta si può ridisegnare il perimetro della magistratura senza temere reazioni delle toghe e dei loro supporter.Qualcosa è cambiato, sembra dircelo anche il risultato delle Amministrative. E magari così palare di giustizia sarà un po’ più semplice.