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«La persona onesta è quella che prima di tutto fa i conti con se stessa. Quando sei onesto con te stesso tutto viene in discesa. Ma la maggior parte delle persone che sono qui dentro sono tutte persone che non hanno avuto questo coraggio. Per questo si trovano in una forte difficoltà personale ora che sono rinchiuse». A parlare è Diletta, una ragazza che insieme a molti altri è in attesa davanti al carcere romano di Regina Coeli Un istituto di transito, qui si aspetta che venga emessa una sentenza definitiva o si scontano pene di pochi mesi. Attendono per incontrare i propri parenti o compagni detenuti. Una mattina dopo l’altra e il venerdì la possibilità di restare fino al pomeriggio inoltrato.Quello di Diletta è un viso sereno, segnato dalla matita del trucco e dalla frangetta che le squadra il viso. La voce è calma, senza risentimento ma con un retrogusto di rimpianto. Ha appena parlato con il suo compagno, lui lavorava mentre attendeva che un giudice si pronunciasse su fatti di tre anni prima, poi il colpo basso e la richiesta di misure cautelari restrittive.Intorno altri visi e storie simili. Altre facce, alcune segnate dall’abitudine, altre molto meno. [embed]https://youtu.be/NMADo-JLRT0[/embed] È facile accorgersene dai gesti nervosi, dalle sigarette fumate di fretta e dai caffè consumati nel bar di Francesca proprio di fronte all’ingresso del carcere. Ci si scambia informazioni, tra rudimenti di giurisprudenza e consigli sulle parcelle degli avvocati.Sono madri, figli, mogli. Molte donne. Italiane e immigrate. Tutte cariche di borse e pacchetti. Non è facile parlare con loro. Il carcere è ancora sinonimo di vergogna. Ma c’è anche la paura che una parola “fuori posto” possa pregiudicare la situazione di chi si trova in cella .Quello che si svolge tra i parenti e le guardie carcerarie è un confronto silenzioso tra l’abitudinario e l’ostile. Non si può controllare ciò che avviene dentro, ogni tanto filtra qualche notizia che arriva dai carcerati e non si tratta spesso di buone nuove.Una ragazza dai capelli cortissimi è appoggiata al muro, non vuole farsi intervistare perché dice di avere due figli piccoli e non vuole che sappiano qual è la situazione. Poi però si lascia sfuggire che «a Natale Totti (l’ex capitano della Roma ndr.) ha regalato dei televisori per i detenuti ma ancora non sono stati messi a disposizione. Forse ci sarà una protesta per questo». Naturalmente non si può verificare, inutile domandare alla polizia penitenziaria. Sono molto nervosi, infastiditi dalla presenza dei giornalisti, dicono di non poter parlare in servizio e preferirebbero che non lo facesse nessun altro. Chiaramente è impossibile e così si limitano a dire che non si possono fare riprese video del carcere, «questa è una struttura militare, ci vogliono i permessi».Qualcuno di loro, in pausa caffè, si lascia andare a qualche confidenza sul sovraffollamento, il problema atavico delle carceri italiane, «normalmente i detenuti dovrebbero essere al massimo 600, ora sono circa un migliaio. In maggioranza sono stranieri, ci sono tutti i reati». Se si chiede cos’è che andrebbe cambiato per migliorare la situazione risponde sicuro: «la legge Gozzini, ci sono troppe evasioni e gente che non rientra dai permessi».Non è dello stesso parere Adrian, 24 anni, in Italia da quando ne aveva 13. Occhio ceruleo che saetta da una parte all’altra. Parla ostentando sicurezza e arrabbiatura. È lì per suo padre: «Non è una situazione che può andare avanti così, poi per carità le leggi sono le leggi». Per lui il problema è quello del personale «perché non ti sanno rispondere, poi da quanto so le condizioni dentro non vanno bene, questo è il carcere più brutto d'Italia. È la prima volta che mi trovo ad affrontare una cosa del genere e sarà anche l'ultima. Non lo auguro a nessuno, quello che senti, quello che provi. Pure per mia madre è dura, io vengo con lei perché difficilmente può superare questa cosa». Il carcere mette a dura prova i legami, li stressa, li allenta e li rinsalda nello stesso tempo. Le esigenze di sicurezza, che sono reali, confliggono con il bisogno di affettività che rimane comunque imprescindibile. «Io poi ho una sorella piccola - continua Adrian -, non mi hanno neanche consentito di consegnare a mio padre una letterina della figlia. Mi hanno detto che loro non possono far passare foglietti. Gli ho detto che la bambina ha otto anni ma non c'è stato niente da fare». Per strada fa freddo, forse è lo stesso che sente chi sta in cella. Diletta, la ragazza incontrata all’inizio, ha voglia di parlare e conferma: «per quanto riguarda i riscaldamenti la persona che io vengo a trovare ha grossi problemi alle mani a causa del gelo. Va bene la pena, va bene la condanna, ma condizioni decenti devono essere garantite a prescindere. Qualcuno dovrebbe avere un occhio di riguardo in più per chi è chiuso qua dentro. Non si tratta di regalare agi ma la dignità minima perché comunque le difficoltà sono tante. Ad esempio la sera di Natale e di Capodanno sono stati chiusi dalle otto di sera nella loro cella senza poter condividere quel momento insieme agli altri».Sembra quasi di sentire le parole di Papa Bergoglio, pronunciate qualche giorno fa a Santiago del Cile. «Essere privato della libertà non è la stessa cosa che essere privato della dignità – ha detto il Pontefice - . Non si tocca a nessuno. La dignità si cura, si custodisce, si accarezza. Nessuno può essere privato della dignità». Un tema potente che sembra essere assente all’interno di una Campagna elettorale galoppante. Dove c’è chi soffia sulle paure proponendo la costruzione di nuove carceri e assunzioni di poliziotti. Chi riscrive la storia giudiziaria degli ultimi anni a suo piacimento. E chi, infine, vorrebbe abolire l’articolo 41 bis del carcere duro. Lungo la parte superiore del Lungotevere c’è una fermata d’autobus, sulla paletta che segnala il numero della vettura, un manifesto. La faccia sorridente e rassicurante di Pietro Grasso. L’ex presidente del Senato, per anni magistrato antimafia e ora candidato alle elezioni. Per uno strano gioco di prospettive sembra guardare proprio in basso verso le persone che aspettano davanti Regina Coeli.Cosa chiederebbero i parenti dei detenuti alla politica, a chi si prepara ad essere catapultato in Parlamento? Probabilmente niente di irrealizzabile ma estremamente concreto. Basta ascoltare Iolanda, anche lei in fila per incontrare suo marito. Senza mai mollare la sua sigaretta illustra le sue richieste: «chi viene eletto dovrebbe applicare le leggi che ci stanno per prima cosa, prima di carcerare una persona. Poi vieni trattato come un animale e alla fine gli dici “scusate ci siamo sbagliati”. La vita di una persona non dovrebbe essere rovinata così».La politica alla fine è un argomento che appassiona chiunque, anche se la fiducia in essa non è certo il sentimento principale. E così interviene di nuovo Adrian: «chi viene eletto dovrebbe guardare se un detenuto ha una colpa oppure no. Nel nostro caso dovrebbe stare fuori, la legge dovrebbe essere uguale per tutti ma non funziona così».Al di là dei casi personali, quella che emerge è un’esigenza generale di giustizia. Per questo l’onestà è un concetto scivoloso che rischia di ritorcersi contro chi la sbandiera retoricamente e sicuramente non è una categoria della politica. «Per me l'onestà è che se vedo una persona rubando la vado a prendere – conferma Iolanda . Poi prendo anche chi ha visto e non denuncia. È così che succede nella politica, perché tra “cani non si mozzicano” e se qualcuno sa di qualche reato sta zitto e almeno guadagna qualcosa anche lui».