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CARCERE DI BOLLATE DETENUTO
Le celle torneranno ad essere il più possibile chiuse. Questo è il cuore della circolare “Modalità custodiali circuito Alta Sicurezza”, firmata il 27 febbraio dal direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ernesto Napolillo, e recentemente resa pubblica. Un documento di 8 pagine che invita a blindare ulteriormente le sezioni AS (Alta Sicurezza 1, 2 e 3), dove sono rinchiusi detenuti per reati di mafia e terrorismo. L’obiettivo dichiarato è contrastare la “permeabilità” del circuito, dopo che indagini antimafia avrebbero rivelato contatti illeciti tra detenuti e criminalità esterna. Ma, per l’Osservatorio Carcere delle Camere Penali, si tratta di “una cortina di silenzio” per nascondere il fallimento delle politiche trattamentali.
Negli ultimi anni il clima nelle carceri italiane è diventato sempre più teso. Numeri che parlano da soli – 28 suicidi registrati, l’ultimo a Cuneo, e 88 decessi totali dall’inizio dell’anno – fanno da sfondo a una realtà in cui la sofferenza quotidiana dei detenuti è innegabile. In questo scenario, la circolare del Dap, firmata da Ernesto Napolillo, arriva come una risposta istituzionale, ma con modalità che sembrano più orientate a un controllo rigoroso, utile a mettere fine al discorso delle celle aperte. Invece di implementare le opere trattamentali, utili a non lasciare i detenuti nell’ozio, compresi quelli per reati gravi come il 416 bis, si opta per la chiusura.
Così si penalizza l’aspetto rieducativo della pena
Il testo, indirizzato a provveditori regionali, direttori degli istituti penitenziari e comandanti dei reparti, si apre con una premessa in cui si segnala la presenza di “relazioni di servizio”, “proteste” e “lamentele” anonime da parte della popolazione detenuta. Il documento evidenzia, in maniera astratta, disallineamenti organizzativi che, secondo quanto riferito, metterebbero a rischio la sicurezza interna delle sezioni Alta Sicurezza. In pratica, il Dap impone un rigoroso regime di “custodia chiusa”. Le nuove disposizioni richiedono, tra l’altro, la trasmissione immediata di regolamenti interni e ordini di servizio relativi agli orari delle camere, al divieto di stazionare nei corridoi e alle modalità di fruizione degli spazi comuni. La logica del provvedimento è chiara: evitare ogni possibilità che i detenuti possano instaurare contatti o aggregarsi in modi capaci di alimentare rapporti pericolosi, soprattutto alla luce di indagini antimafia che hanno evidenziato una certa permeabilità del sistema carcerario agli influssi esterni.
Il documento si presenta con toni asettici e freddi, tipici del linguaggio amministrativo. Le richieste di trasmissione di regolamenti e ordini di servizio appaiono come adempimenti formali, in un momento in cui, a detta di chi ha visitato le carceri, il personale stesso afferma che un regolamento di istituto esiste solo “in attesa di approvazione”. Il Dap sembra più impegnato a far calare una “cortina del silenzio” sulla situazione che a cercare soluzioni concrete per migliorare le condizioni di vita dei detenuti.
Questa impostazione normativa si traduce in una riduzione delle possibilità di movimento e aggregazione all’interno dei reparti. La richiesta di mantenere le camere chiuse e limitare gli spazi comuni non si pone l’obiettivo di tutelare la sicurezza in modo bilanciato, ma di imporre un controllo sempre più stretto che penalizza l’aspetto rieducativo della pena. La mossa sembra voler mascherare una strategia di repressione, piuttosto che un tentativo di migliorare un sistema già in difficoltà.
La protesta dei penalisti: «È un manifesto di propaganda»
Sul versante opposto, l’Osservatorio Carceri delle Camere Penali racconta una realtà ben più drammatica. Il documento diffuso dalla Giunta e dall’Osservatorio sottolinea che, seppur il Dap ammetta l’esistenza di criticità, queste vengono trattate come se fossero problemi minori. La denuncia evidenzia come, ogni giorno, il carcere ricordi le sue condizioni intollerabili: la lunga scia di suicidi e la perdita di vite, simboli inequivocabili di un malessere profondo. Il testo denunciato evidenzia che il provvedimento – dal tono repressivo e intimidatorio – mira a soffocare ogni forma di espressione e denuncia. La richiesta di consegna immediata di ogni documento inerente a petizioni, note o lamentele, sia dei detenuti che dei loro familiari, appare come un atto finalizzato a mettere a tacere il dissenso, negando il diritto fondamentale alla comunicazione e alla denuncia delle ingiustizie.
L’Osservatorio non esita a criticare la circolare come un manifesto di propaganda, volto a distogliere l’attenzione dai veri problemi delle carceri: sovraffollamento, mancanza di assistenza sanitaria, assenza di attività rieducative e presenza costante di disagio psichiatrico. Il dato dei 88 decessi nelle sbarre viene richiamato come simbolo di una realtà che il Dap cerca di minimizzare, trasformando un’emergenza in un dettaglio burocratico.
In alta sicurezza senza attività trattamentali restano in cella
C’è un po’ di confusione. Ma di cosa si parla quando si parla di sorveglianza dinamica? In breve, si tratterebbe dell’apertura delle celle per i soggetti detenuti in media e bassa sicurezza per almeno 8 ore al giorno e fino a un massimo di 14 ore, della possibilità per questi di muoversi all’interno della propria sezione – e, auspicabilmente, anche all’esterno – e di usufruire di spazi più ampi per le attività, e del contestuale mutamento della modalità operativa in sezione della Polizia penitenziaria, non più chiamata ad attuare un controllo statico sulla popolazione detenuta, ma piuttosto un controllo incentrato sulla conoscenza e sull’osservazione della persona detenuta. Un compito che non riduce la figura dell’agente penitenziario a mera custodia, ma lo rende parte attiva del percorso trattamentale dei detenuti. Tra l’altro, è stata la stessa Cedu – con la sentenza Torreggiani – a indicare l’apertura delle celle come elemento compensativo al sovraffollamento. L’introduzione del nuovo tipo di sorveglianza risale alla circolare del Dap del 14 luglio 2013, recante le “linee guida sulla sorveglianza dinamica”. Ulteriori specificazioni si trovano nella circolare n. 3663/6113 del 23 ottobre 2015, recante “Modalità di esecuzione della pena”. Questa è emanata a distanza di circa due anni dalla prima, chiedendo da un lato una maggiore uniformità nell’organizzazione dei reparti detentivi nei diversi istituti, e dall’altro una migliore organizzazione di attività lavorative, d’istruzione e ricreative, che favoriscano la permanenza dei detenuti fuori sezione. Per quanto riguarda l’alta sicurezza, invece, sulla carta si deve garantire almeno l’apertura di 8 ore al giorno, come richiamato dalle raccomandazioni europee, che stabiliscono il tempo minimo da trascorrere fuori dalle camere detentive. La nuova circolare, sulla carta, non nega le otto ore, ma le lega all’obbligo di svolgere un’attività. Nei fatti, soprattutto in quei circuiti, le attività trattamentali sono scarse. Il risultato è che i detenuti, loro malgrado, dovranno rimanere quasi perennemente chiusi in cella. Un tuffo nel passato. E quello, sì, era oscuro.