Il processo per l’omicidio di
Giulio Regeni resta sospeso. E dal ministero della Giustizia arriva la conferma dell’assoluta mancanza di collaborazione da parte dell’Egitto
per arrivare ai quattro 007, le cui posizioni in patria sono state archiviate da tempo. «Ad oggi non abbiamo ricevuto nessuna risposta dall’autorità egiziana» sulla domiciliazione dei quattro indagati, ammette, sentito dal gup di Roma, Nicola Russo, capo dipartimento per gli Affari giustizia presso il ministero di via Arenula. «L’ultima richiesta in ordine di temo risale al 6 ottobre scorso», aggiunge, chiarendo che Il Cairo «non ha neanche risposto alla richiesta di incontro arrivata dalla ministra Marta Cartabia».
L’udienza viene aggiornata al 13 febbraio, ma la strada per arrivare a un vero processo è sempre più in salita, tanto che lasciando l’aula i genitori del ricercatore, Paola Deffendi e Claudio Regeni, accompagnati dall’avvocato Alessandra Ballerini, evidenziano: «Se ce n’era bisogno è emersa ancora una volta e con ulteriore chiarezza che le autorità egiziane non hanno, né hanno mai avuto, nessuna intenzione di collaborare e si fanno beffe del nostro sistema di diritto». «Anche alla luce di quanto dichiarato oggi dal funzionario del Ministero della Giustizia - aggiungono - auspichiamo in un’adeguata reazione di dignità del nostro governo».
La ricostruzione dei fatti tra depistaggi e bugie
I quattro agenti coinvolti nel procedimento sono Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono accusati di sequestro di persona, mentre Abdelal Sharif risponde anche di lesioni e concorso nell’omicidio del ricercatore friulano ucciso nel 2016 a Il Cairo. Giulio venne rapito la sera del 25 gennaio 2016. Nelle prime settimane dopo il ritrovamento del corpo, tante false piste si susseguirono: prima si parlò di un incidente stradale, poi di una rapina finita male, successivamente si insinuò che il giovane fosse stato ucciso perché ritenuto una spia, poi che fosse finito in un giro di spaccio di droga, di festini gay, di malaffare che l’aveva portato a farsi dei nemici. A un mese dalla morte di Giulio alcuni testimoniarono di averlo visto litigare con un vicino che gli aveva giurato morte. Il 24 marzo del 2016 arrivò l’ennesima ricostruzione non credibile e questa volta c’erano di mezzo cinque morti: criminali comuni uccisi in una sparatoria con ufficiali della National Security egiziana, alla periferia del Cairo.
«Ho visto Giulio legato con catene di ferro e segni di tortura sul petto…». La testimonianza chiave sul caso Regeni
I documenti di Giulio furono trovati quello stesso giorno in casa della sorella del capo della presunta banda e si disse che i cinque erano legati alla morte del giovane. Dalle indagini italiane emerse che il ricercatore era attenzionato da polizia e servizi segreti già settimane prima del rapimento. Le analisi sui tabulati misero in luce i numerosi contatti telefonici tra gli agenti che si erano occupati di tenere sotto controllo Giulio tra dicembre 2015 e gennaio 2016, e gli ufficiali dei servizi segreti coinvolti nella sparatoria con la presunta banda di criminali uccisi nel marzo 2016 a cui gli egiziani provarono ad attribuire l’omicidio. Chi indaga a piazzale Clodio è convinto che Giulio sia stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia alla National Security da un sindacalista degli ambulanti con il quale era entrato in contatto per i suoi studi.