PHOTO
Dove non arriva il buon senso interviene la legge, direbbe chi negli ultimi due anni ha investito risorse ed energie nel“caso mense” di Lodi. La vicenda che aveva travolto il comune lombardo nell’autunno del2018, aprendo una crepa nell’allora governo giallo-verde e suscitando, al contempo, uno straordinario clamore mediatico con annessa mobilitazione dei cittadini. Ad archiviare l’affare ci ha pensatola Corte d’appello di Milano che ha accertato, con sentenza di ieri, la «condotta discriminatoria» della giunta di Lodi e ha condannato il Comune al rimborso delle spese processuali, quantificate in7500 euro. Secondo i giudici, il provvedimento comunale che aveva finito per isolare i bambini stranieri in alcuni istituti scolastici «costituisce una discriminazione diretta nei confronti dei cittadini di Stati extra Ue per ragioni di nazionalità perché - si legge nella sentenza - di fatto, attraverso i gravosi oneri documentali aggiuntivi richiesti, rende loro difficoltoso concorrere all’accesso alle prestazioni sociali agevolate, così precludendo ai predetti il pieno sviluppo della loro persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza».La Corte ha quindi respinto il ricorso presentato dallo stesso comune, confermando l’ordinanza del Tribunale di Milano che - accogliendo il ricorso delle associazioni Asgi e Naga, assistiti dagli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri - aveva già dichiarato illegittima la delibera della giunta lombarda e aveva ordinato all’amministrazione di garantire l’accesso alle prestazioni sociali, come la mensa e lo scuolabus, ai bambini stranieri quanto a quegli italiani senza distinzioni di sorta. I fatti risalgono al2017, quando il comune di Lodi, guidato dalla sindaca leghista Sara Casanova, aveva introdotto una modifica al regolamento sulle prestazioni agevolate con decorrenza dall’anno scolastico2018-19: la delibera imponeva ai soli cittadini stranieri di presentare unitamente all’Isee - l’indicatore di redditi e patrimonio - alcuni documenti aggiuntivi che certificassero la nulla tenenza dei richiedenti nei paesi di origine, con tanto di traduzione e approvazione del Consolato italiano. Documenti talmente difficili da reperire, che la maggior parte dei genitori stranieri aveva dovuto rinunciare ai servizi scolastici per i propri bambini: senza agevolazioni, infatti, le famiglie venivano catalogate nella fascia economica più alta, arrivando a pagare 5euro per un pasto e oltre 200 euro a trimestre per lo scuolabus. Risultato? Aule separate per i bambini che hanno accesso alla mensa e quelli che possono consumare il cibo portato da casa, quando eccezionalmente concesso. Mentre nella maggior parte degli istituti - come raccontano i quotidiani in quei giorni - l’unica soluzione per i genitori stranieri è prelevare i bambini all’ora di pranzo. Una situazione difficilmente digeribile per molti. Il caso, infatti, aveva sollevato l’indignazione generale, e alcuni comitati cittadini di zona, insieme ad altre organizzazioni civili, politiche e religiose avevano avviato una raccolta fondi per sostenere le spese di accesso ai servizi per le famiglie in difficoltà. Il comune di Lodi -condannato dal Tribunale diMilano - aveva infine rivisto il regolamento, impugnando però l’ordinanza dei giudici con il ricorso rigettato ieri. Nel dettaglio, la Corte d’Appello ha confermato che l’Isee costituisce lo strumento generale di accesso alle prestazioni sociali, e che, fermi tutti i poteri di verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate e delComune, lo straniero non può essere gravato, in ragione della sua sola cittadinanza, di oneri che rendono di fatto impossibile l’accesso alle agevolazioni. La decisione dei giudici conferma«l’uguaglianza di italiani e stranieri nelle procedure di accesso alle prestazioni sociali»,commenta l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) che ha presentato ricorso per prima. «Italiani e stranieri- sottolinea Asgi - devono essere trattati in maniera uguale:uguali nel dovere di fornire alla pubblica amministrazione tutte le notizie richieste sui loro redditi e patrimoni; uguali nella soggezione a verifiche, ma uguali prima di tutto nel diritto di accedere alle prestazioni sociali senza essere vittime di pretese irragionevoli e, soprattutto, contrarie alla legge dello Stato».