Caso Lucano, cosa non torna nelle parole del procuratore
In un'intervista alla Stampa, il procuratore di Locri Luigi D’Alessio contesta all’ex sindaco di Riace di aver spedito i migranti nella baraccopoli di San Ferdinando. Ma a farlo era la prefettura
Lucano ha effettivamente avuto «una mirabile idea di accoglienza», però gestita male e riservata a soli pochi eletti: avrebbe mantenuto a Riace sempre gli stessi migranti, senza alcun avvicendamento periodico, «e gli altri li mandava nell’inferno delle baraccopoli di Rosarno», diceva qualche giorno fa su La Stampa il procuratore di Locri Luigi D’Alessio. E ancora: «Non ho mai visto tanti migranti manifestare in suo favore». Due frasi importanti, quelle pronunciate dal procuratore, che chiama Lucano «bandito western», che però non trovano riscontro nei fatti. Soprattutto la prima: era lo Stato a gestire l’inferno della baraccopoli di Rosarno e sempre lo Stato - la prefettura, nello specifico - ad inviare lì i migranti. Compreso quando Riace ha dovuto chiudere il Cas, perché la stessa prefettura - all’epoca guidata da Michele Di Bari, colui che ha ordinato le ispezioni su Riace - aveva smesso di versare da tempo il dovuto al Comune.
Due anni a secco
Per quasi due anni, infatti, da Reggio Calabria non è arrivato nemmeno un euro. E a ridosso di Natale, i migranti cominciarono a vedersi staccare la luce in casa. La soluzione trovata da Lucano per sopperire i continui ritardi - i bonus, ovvero la moneta alternativa “coniata” a Riace, prima elogiata pubblicamente dal Viminale e poi disconosciuta dallo stesso - non era più perseguibile. Con quella moneta, prima, i migranti potevano comprare nelle botteghe locali, che così avevano riattivato la loro economia incassando direttamente dallo Stato il dovuto. E inoltre potevano gestire direttamente il denaro, senza rischiare che qualcuno lo facesse per loro. Un modo per promuovere l’integrazione ed evitare ruberie, insomma. Ma cancellata a colpi di marca da bollo quella idea, toccava fare i conti con la burocrazia. La prefettura di Reggio Calabria, di punto in bianco, comunicò di voler chiudere il progetto. Una decisione non condivisa dai migranti, che protestarono per restare, e nemmeno dall’allora presidente della Regione, Mario Oliverio, che chiese alla prefettura di temporeggiare. Nulla da fare, però: la situazione era ormai ingestibile. Così fu Lucano stesso a decidere di chiudere il progetto, inviando una nota in prefettura il 21 dicembre del 2018, ma lasciando in piedi i progetti Sprar e le porte aperte a chiunque volesse restare tra coloro che facevano parte dei Cas. Il 28 dicembre, dunque, tutti gli ospiti furono costretti a partire. A San Ferdinando ci finì anche Becky Moses, che a Riace non poteva rimanerci per il rifiuto della commissione territoriale di riconoscere la sua richiesta d’asilo. Per la legge e per la prefettura, infatti, la donna non poteva essere trasferita in uno Sprar. Così andò via dalla Locride, raggiungendo alcuni connazionali che vivevano ormai stabilmente nella tendopoli a 70 km più a sud.
L’ultimo viaggio
Quel viaggio per Becky è stato l’ultimo: la giovane è morta in un rogo dentro «l’inferno della baraccopoli» il 27 gennaio 2018. Un rogo nato per una lite tra migranti all’interno della struttura, dove però gli ospiti vivevano in condizioni pietose: senza servizi igienici, tra pozze di fango e rifiuti, nel completo degrado. Una situazione legale, a quanto pare, legalmente gestita dallo Stato. E poco prima di partire verso quel buco nero, Lucano le rilasciò una carta d’identità, illegale, ammette lui stesso, proprio perché a Becky nessuno aveva riconosciuto il diritto di stare da qualche parte. Per quel documento, però, l’ex sindaco non è stato mai indagato. Gliene hanno contestate delle altre - tra cui quella rilasciata ad un bambino di 4 anni che altrimenti non avrebbe potuto curarsi -, ma non quella. «Perché?», si chiede oggi, ricordando come la responsabilità della baraccopoli fosse della prefettura e come proprio grazie a quella carta d’identità quella giovane donna abbia trovato sepoltura: dopo quattro mesi, infatti, l’obitorio contattò il Comune, sottolineando come nessuno volesse saperne niente. Se ne lavarono le mani di quei resti considerati - letteralmente - «rifiuti speciali». Ossa e cenere chiuse in una scatola alla quale tutti voltavano le spalle. Così finì a Riace.
Le manifestazioni
Per D’Alessio, inoltre, nessuno dei migranti ha manifestato per Lucano. E ciò nonostante le foto e le immagini degli ospiti del borgo in testa al corteo il 6 ottobre del 2018, quattro giorni dopo essere finito ai domiciliari. E nonostante le foto e i video di gente in lacrime in piazza, ogni volta che di Lucano e della sua storia giudiziaria si è tornati a parlare pubblicamente. L’ultima volta è successo pochi giorni fa, dopo la condanna a 13 anni e 2 mesi decisa dal Tribunale di Locri. Oggi i pochi migranti rimasti a Riace non vivono di progetti - chiusi, sentenziano Tar e Consiglio di Stato, «illegittimamente» dal ministero dell’Interno -, ma di puro e semplice volontariato. «Sto mantenendo l’accoglienza senza niente», dice l’ex sindaco osservando una donna e i suoi figli camminare per le vie del borgo. L’accoglienza, per lui, è stata un boomerang. E le cose sono cambiate quando la cifra è passata da 20 euro a migrante a 35. Troppi, ha spiegato lui stesso, che ha così deciso di usare le economie dei progetti per fare integrazione. «Come si fa a rendicontare se la cifra raddoppia? - ha spiegato -. Nei soggetti gestori scatta la necessità di diventare bravi ragionieri, quella di giustificare la spesa, ma con progetti insignificanti. I lungo permanenti non esistono. Io ho posto un problema a livello tecnico al ministero: sei mesi non sono sufficienti per l’integrazione. Ho dovuto pagare anche le deficienze dello Sprar. Ma nessuno capiva che Riace non può essere Milano o Trieste, ci sono caratteristiche tipiche del territorio, l’accoglienza deve avere una duplice funzione, deve creare opportunità anche per la gente del posto». Lucano quando racconta ricorda la storia di ognuno.Di ogni immigrato, dei problemi di salute del singolo ospite, il dramma dietro ogni viaggio. E mentre racconta le storie di quasi 20 anni di accoglienza viene inondato di messaggi di migranti, tra i quali quello di Jimenez, giovane donna che stava per essere trasferita a San Ferdinando con suo figlio. Quella volta l’ex sindaco si oppose fisicamente al suo trasferimento, così come l’ex governatore Oliverio. E alla fine rimase a Riace, assieme agli altri. Dei quali anche lui si sente parte: «Io sono uno di loro».