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«Una proposta che individua delle patologie e propone di trasformarle in regola, invece di combatterle. Ma così ci si arrende». Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma ed ex segretario dell’Anm, è convinto che la separazione delle carriere dei magistrati non risolverebbe affatto le distorsioni della giustizia.
Il giudice Nicola Quatrano sul Dubbio ha dichiarato di aver sottoscritto la proposta di legge delle camere penali sulla separazione delle carriere. Partiamo da qui: perché lei non firmerebbe mai quell’appello?
Prima di tutto perché credo che la separazione delle carriere sarebbe un danno per la giurisdizione e per le garanzie dei cittadini. Ma anche perché la proposta avanzata dalle camere penali introduce delle notevoli e rilevantissime modifiche dell’assetto costituzionale della magistratura, tali da stravolgere i principi di indipendenza e autonomia della magistratura giudicante. Penso in particolare alla possibilità d’ingresso in magistratura in base a nomina governativa, senza concorso, sul modello del Consiglio di Stato. Penso anche alla composizione dei due Csm, formato in maniera paritaria da componenti eletti dal Parlamento e componenti eletti dalla magistratura. Ma penso pure alla sostanziale abolizione del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale contenuto in Costituzione. Si tratta dunque di una riforma complessiva della quale la separazione delle carriere è solo un pezzo - che rischia di incidere in maniera molto severa sull’autonomia della magistratura.
Perché è convinto che verrebbe meno l’autonomia?
Oggi i magistrati sono un corpo professionale selezionato solo a seguito di concorso e questo garantisce l’indipendenza rispetto al potere politico. Se il governo potesse nominare senza limiti magistrati di fiducia la separazione fra poteri non esisterebbe più. Una maggiore forza della componente laica all’interno del Csm, poi, significa maggior peso della politica sulla scelta dei dirigenti degli uffici, sulla nomina dei magistrati e sulla valutazione della loro carriera. In questo modo il potere politico avrebbe tutti gli strumenti per conformare, guidare e governare la magistratura.
Chi invoca la separazione delle carriere, però, punta il dito sulla mancanza di terzietà del giudice, considerato troppo vicino al pubblico ministero...
Noi dovremmo lavorare per una comune formazione professionale dei magistrati e degli avvocati, perché facciamo sostanzialmente lo stesso lavoro, anche se con parti diverse all’interno del procedimento. La separazione danneggia la formazione di una comune cultura della giurisdizione che invece è fondamentale per lo svolgimento delle proprie funzioni. Un giudice può esercitare meglio la sua funzione se conosce anche i meccanismi propri dell’investigazione o se ha maturato esperienze di difesa. La circolazione delle esperienze professionali e la comune cultura della giurisdizione sono valori che caratterizzano il sistema di molti paesi occidentali. Il tema della terzietà, invece, ha a che fare con le regole processuali, con la cultura delle garanzie. Per questo, secondo me, la battaglia sulla separazione delle carriere appare un po’ datata. Dopo quasi 30 anni dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, mi pare che la cultura della terzietà del giudice sia patrimonio acquisito di tutta la magistratura italiana.
Ma come può lo stesso magistrato passare con disinvoltura dalla cultura del dubbio ( da giudice) alla cultura della condanna ( da pm)?
È una visione sbagliata del ruolo del pubblico ministero. Anche il pm deve coltivare il dubbio, per questo è bene che abbia una formazione comune con giudici e avvocati. Il pm non deve perseguire la condanna a ogni costo, deve cercare anche le prove a favore dell’imputato e chiedere l’assoluzione in caso di innocenza. Quello che persegue la condanna a ogni costo è un modello di pm lontano dalla nostra cultura, un modello di pm politicizzato che istruisce i processi per costruire la sua carriera.
Un modello in cui non è raro imbattersi...
Queste sono generalizzazioni non utili al dibattito. Che ci sia una debolezza della politica, che subisce la diffusione di notizie di stampa, è un fatto con cui l’Italia purtroppo convive almeno dall’avvio delle indagini su Tangentopoli. Questo fenomeno però è figlio della debolezza dei partiti che delega alla magistratura l’accertamento della responsabilità politica, non solo di quella giudiziaria. Quando si dice “non bisogna dimettersi fino a condanna definitiva”, la di fatto politica trasferisce alla magistratura la decisione.
Certo, ma davanti a potenti campagne stampa è complicato prendere decisioni in maniera serena. Caso di scuola: Clemente Mastella. A causa di un’inchiesta molto mediatica cade un governo e dopo dieci anni vengono tutti assolti...
Se i processi avessero tempi ragionevoli, si potrebbe smontare un’accusa in tempi brevi e tornare a una situazione di normalità.
Resta però il potere mediatico del pm che a volte mette in soggezione un giudice e lo trasforma in un “passacarte”...
Che ci sia un peso rilevante sul dibattito pubblico della fase delle indagini preliminari è un dato, ahimè oggettivo, che dipende sostanzialmente dal fatto che i processi in Italia non si riescono a fare in tempi ragionevoli. E quando una vicenda giudiziaria finisce sulle prime pagine dei giornali siamo normalmente solo nella fase dell’investigazione perché il processo è molto lontano nel tempo e molto diluito.
Però nel frattempo il giudizio è già arrivato a livello di opinione pubblica. Le Procure, come dice Quatrano, si trasformano nella «principale agenzia stampa del Paese»...
Questa è una distorsione del meccanismo processuale che però non ha nulla a che vedere con la separazione delle carriere. Trovo ingeneroso pensare che un’alterazione della percezione da parte dell’opinione pubblica della realtà giudiziaria si trasferisca matematicamente sui giudici, che hanno una forte capacità d’indipendenza anche nei confronti delle parti del processo. È l’esperienza quotidiana che ci consegna decisioni coraggiose che non tengono conto dell’opinione pubblica. La cultura di terzietà è dimostrata nei fatti e non subisce particolari conseguenze da questa distorsione oggettiva.
E innegabile, però, che esistano anche esempi opposti, di forte condizionamento del giudizio. Come si corregge questa distorsione?
L’unico antidoto, ripeto, è fare i processi in tempi brevi e fornire immediatamente una risposta vera in termini di giustizia, dando maggiore centralità alla fase del giudizio. E da questo punto di vista, separare le carriere non produrrebbe alcun effetto. Anzi, probabilmente, aumentando l’autoreferenzialità del pubblico ministero rischiamo di accentuare questo fenomeno invece di arginarlo. Mi sembra piuttosto pericoloso. Pensate a un corpo separato di pubblici ministeri che ha la disponibilità della polizia giudiziaria, che si governa e amministra da solo: verrebbero rafforzati gli elementi negativi del protagonismo della fase inquirente. Da un punto di vista democratico i pm diventerebbero troppo potenti. E cercherebbero un rapporto stretto con la stampa molto più di adesso.