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No, no e no. Non è sopportabile che siano le donne, anche quelle più stimabili come il ministro Giulia Bongiorno o la conduttrice tv Myrta Merlino, a chiedere più carcere e pene esemplari.
La donna dovrebbe essere l’emblema della giustizia, quella che tiene la bilancia in equilibrio, le regole inflessibili, le procedure intoccabili. Si sta invece scatenando un clima da tricoteuses, composto di donne che paventano un ritorno al delitto d’onore ( cioè a un’epoca in cui uccidere la moglie fedifraga non era quasi reato ) e uomini colpevolizzati dalla paura di essere a loro volta considerati stupratori e assassini.
Ci sono tre sentenze che stanno facendo discutere in questi giorni. Prima di tutto perché le vittime sono donne, ma anche e soprattutto perché i giudici ( donne ) non hanno ritenuto di infliggere pene esemplari, di quelle che, come si usa dire di questi tempi, consentano di sbattere il colpevole in galera e poi buttare via la chiave. Hanno ragionato, e poi deciso, in modo freddo. Come deve essere, cioè applicando il codice. Ma le loro decisioni cozzano contro un muro di superficialità. Perché va detto innanzi tutto che in genere le persone che protestano e pontificano non hanno letto le motivazioni delle sentenze. mune e infine la Verità. E saremo Si parla per sentito dire, si agguanta una frase del tutto isolata dal contesto, la si trasforma in un titolone e poi, come un sasso nello stagno, quella frase moltiplicherà le onde, diventerà sentire comune e infine la Verità. E saremo tutti sdegnati, mentre qualche ministro frettoloso manderà un’ispezione.
Un caso, quello di Ancona, riguarda una sentenza di cassazione che ha annullato quanto deciso in corte d’appello ( da tre giudici donne), cioè l’assoluzione di due uomini in un caso di stupro. Nei processi di violenza sessuale è fondamentale la credibilità della vittima. Se questa non è certa, si deve assolvere. E’ evidente che la corte d’appello non aveva ritenuto attendibili le parole della ragazza che aveva denunciato. Certo le tre giudici avrebbero potuto evitare di arricchire le loro argomentazioni con riferimenti poco lusinghieri sull’aspetto della giovane. Avrebbero dovuto emettere una sentenza più asciutta. Ma le proteste ci sarebbero state in ogni caso, perché la stessa ideologia che nei tempi passati colpevolizzava, anche nelle aule di tribunale, sempre e comunque le donne, oggi le mette sul piedistallo dell’assoluta credibilità, sempre. Al di là di ogni ragionevole dubbio. Fino ad arrivare a insultare altre donne, quelle in toga, quando non emettono la sentenza esemplare, condannando al massimo della pena. Capitò a Milano molti anni fa, anche con rottura di amicizie, quando un tribunale presieduto da una donna ( che era femminista, che era di sinistra, che era di Magistratura democratica) osò mettere in dubbio la parola della “vittima”. La quale ebbe la solidarietà di tutte le donne ( che non conoscevano il processo ) contro l’altra donna, quella in toga.
Gli altri due casi, quello di Bologna e l’ultimo di Genova, riguardano due processi per omicidio. “Femminicidio”, si dice oggi. Parola orribile che riduce la donna a femmina, a corpo. Proprio come la vedono gli uomini quando sono ridotti a maschi e vogliono prendersela e se la prendono anche con la violenza. O la uccidono se non possono più averla.
Care amiche tricoteuses, volete che tutti quanti diciamo quanto orrore ci fanno episodi di questo genere? Certo, fanno orrore a tutti, anche ai magistrati. Ma il giudice deve decidere con il codice in mano, non con la morale e neanche con il cuore. Non deve essere neanche “dalla parte delle vittime”. Deve essere equo e celebrare un processo giusto applicando le norme. Deve persino, pensate un po’, tener conto delle attenuanti oltre che delle aggravanti.
Un omicidio è un omicidio, certo. Ma possono esserci migliaia di situazioni diverse. Spesso l’uomo uccide la donna per ripicca, vendetta, gelosia. A volte lo fa con premeditazione, a volte con un gesto d’impeto. Poi, come nel caso di Bologna, collabora addirittura con i magistrati contro se stesso, inizia a risarcire il danno. Ottiene delle attenuanti che comunque non sono sufficienti a essere considerate prevalenti su quella dominante dell’aver ucciso “per futili motivi”. Il giudice ( donna ) concede l’equivalenza. La sentenza, per chi l’ha letta, appare impeccabile.
Il caso di Genova riguarda un uomo che prima di diventare assassino è stato a sua volta vittima di una donna che lo ha illuso e disilluso, imbrogliato e sfruttato, come racconta la stessa giudice che lo ha condannato considerandolo un caso di “dolo d’impeto” e ricordando che neanche l’accusa aveva ritenuto il suo comportamento determinato dalla pura gelosia, dai motivi futili né dalla premeditazione. La pm ( un’altra donna) che pure aveva richiesto la condanna a trenta anni di carcere, a quanto pare non ricorrerà in appello. Ritiene la sentenza della sua collega “ben motivata”. Il “tribunale del popolo” sarà dunque più accanito della stessa pubblica accusa?
Un’ultima considerazione. Tutti e due gli assassini sono stati condannati al carcere per sedici anni. Una pena severa, come è giusto nei casi di omicidio. Non “solo” a sedici anni, ma “ben” a sedici anni della loro vita da passare con la privazione della libertà. Per quale motivo non dovrebbero essere sufficienti? Il codice del 1989 ha introdotto i riti alternativi del processo, che consentono la riduzione di un terzo della pena ad esempio nel rito abbreviato, che si svolge davanti al gup e fa risparmiare tempo e denaro, tra l’altro. Le nostre amiche tricoteuses vogliono farci tornare indietro al codice Rocco con l’istruttoria segreta? In alcuni Paesi molto civili non esiste l’ergastolo e neanche pene superiori a vent’anni di carcere. In una società ideale non dovrebbero neppure esistere le prigioni, perché ci sarebbero sanzioni di altro genere. Vogliamo proprio noi donne diventare, da vittime, carnefici? Essere quelle che gareggiano per alzare più in alto le forche? E perché qualche volta non proviamo a protestare contro le pene troppo alte?