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È una corsa sul filo. Ad altissimo rischio di caduta. L’esecutivo opta per un curioso stop and go sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, forse la più qualificante, in materia di diritti, dell’intera legislatura. Lo fa secondo uno schema insolito, che espone l’intero pacchetto carcere a un nulla di fatto soprattutto nel caso in cui la futura maggioranza fosse di centrodestra o, peggio, di ispirazione pseudolepenista, con Lega e cinquestelle alleati. Si è scelto di non portare neppure in Consiglio dei ministri il decreto principale, quello che elimina finalmente le preclusioni nell’accesso ai benefici. Ma non si tratta di una resa definitiva, spiegano da via Arenula: il testo ieri mattina non era sul tavolo di Palazzo Chigi perché è tornato nelle mani dell’ufficio legislativo del ministero. In queste ore è sottoposto a un ulteriore affinamento. Non si pensa di accogliere le osservazioni della commissione Giustizia del Senato. Non si tratta di dare ragione a Sebastiano Ardita, il pm che teme possa uscirne indebolito il 41 bis. Ci sarà però un’interlocuzione anche con il Parlamento per «migliorare» la selezione dei reati per i quali resteranno le “ostatività” dell’articolo 4 bis. Molto probabile che a restare esclusi dall’accesso a misure alternative, semilibertà e permessi siano molti degli altri reati oggi esposti alle preclusioni: dalla pedopornografia fino, forse, al traffico internazionale di droga. E quando si avrà il nuovo testo? A breve. Prima del 4 marzo. O al massimo per la settimana successiva al voto. Detta così sembrerebbe la conferma del naufragio. E invece pare che non ci sia da disperarsi. Il premier Gentiloni avrebbe preso un impegno solenne con Orlando: si andrà fino in fondo, anche dopo la data delle elezioni. Persino se ci fosse una clamorosa, schiacciante vittoria del centrodestra o dei cinquestelle, di chi insomma osteggia la riforma. Perché, è il ragionamento del presidente del Consiglio, «nessuno potrà accusarmi di abuso istituzionale: se la nuova maggioranza non condividesse il contenuto del decreto, potrà assumere un successivo provvedimento che riporti tutto a com’era prima». Formalmente, non fa una piega, Ma all’attuale capo del governo servirà un coraggio da leone, nel caso in cui il Pd restasse fuori dalla nuova maggioranza. Ed è questo il punto che mette in pericolo la riforma.Anche perché sarà indispensabileconcedere in ogni caso i famosi ulteriori dieci giorni alle Camere per prendere atto del testo finale. Se infatti non saranno testualmente accolte le richieste di modifica di Palazzo Madama, comeprefigurato dal ministero della Giustizia, l’esecutivo sarà costretto ad attendereche i parlamentari in scadenza ricevano le motivazioni addotte dallo stesso governo per spiegare il diniego. Poi finalmente il provvedimento principale, quello che tocca appunto l’articolo4 bis, oltre ad aspetti importanti come le cure mediche, potrà essere emanato in via definitiva. Se tutto va bene si andrà a un passo dall’insediamento delle nuove Camere, fissato per il 23 marzo.In realtà c’è un’altra parolina, a sconcertare i sostenitori della riforma, da Rita Bernardini ai garati dei detenuti, fino agli intellettuali e ai giuristi che hanno firmato l’appello dei giorni scorsi. È quell’espressione, «nei prossimi mesi», che Gentiloni ha pronunciato davanti ai giornalisti. Fonti del governo provano a fornire anche qui una chiave “tranquillizzante”: il premier non si riferiva al decreto principale, quello sull’accesso ai benefici, ma agli altri tre varati ieri in via preliminare. Si tratta delle misure su esecuzione minorile, giustizia riparativa e alcuni aspetti del lavoro dei detenunti. Interventi in apparenza innocui, dinanzi ai quali non si è placato il nervosismo di Giorgia Meloni: «Noi siamo dalla parte delle vittime, non dei delinquenti: potenzieremo le carceri e faremo pagare chi sbaglia». In ogni caso Gentiloni intendeva ricordare come queste parti della riforma debbano seguire l’iter previsto dalla delega ( e dalle norme generali): 45 giorni di tempo massimo a disposizione delle commissioni parlamentari per l’esame dei testi e la formulazione dei pareri. Con tutto ciò che ne consegue, ovvero l’ulteriore eventuale tempo necessario al ( nuovo) Consiglio dei ministri per rimandare eventualmente i decreti alle Camere, i dieci giorni per l’ultima presa d’atto e il varo finale. Se ne parlerà a primavera inoltrata, se non ai primi bagliori d’estate. È chiaro. E se per il decreto principale ci vorrà un miracolo, per questi vascelli più piccoli messi solo ora in mare aperto servirà una vera e propria benedizione.Tutto chiaro? Di certo non sfugge una certa esitazione politica. Legata, è evidente, alla scadenza elettorale. Non ci sarebbe però un conflitto interno all’esecutivo. Non andrebbe letta in questa chiave neppure l’assenza di Orlando in conferenza stampa. In realtà il ministro avrebbe ritenuto di non intervenire giacché la gran parte dell’incontro tra Gentiloni e i cronisti era destinata alle misure economiche. Orlando è andato via anche per rispettare la tabella di marcia della campagna elettorale, che ieri lo ha visto impegnato a Torino. È tutto sotto controllo. Come per gli acrobati sul filo, appunto, anche se stavolta, di sotto, la rete non c’è.