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L’intero anno 2020 ha visto un calo notevole nel numero annuale consueto degli ingressi negli istituti penitenziari per i minorenni. Ma sorprende il dato che, nonostante il minore spessore criminale delle ragazze rispetto ai ragazzi, sia calata la percentuale delle loro uscite. Un aspetto interessante che emerge nell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone “Oltre il virus”. Secondo l’associazione una spiegazione potrebbe essere quella che fa da sfondo all’intero sistema: si tenta di residualizzare al massimo la detenzione minorile e quando non vi si riesce non è solo, né principalmente, a causa della gravità del reato bensì a causa della mancanza di reti di sostegno. Le ragazze che entrano in carcere nonostante un ridotto profilo criminale portano i segni di una forte marginalità, contro la quale anche le misure emergenziali sono più impotenti. Un problema che di fatto riguarda i ragazzi stranieri. Se nei primi sei mesi del 2019 il 42,2% degli ingressi in Ipm avveniva da parte di stranieri, la percentuale sale al 53,9% nei primi sei mesi del 2020, segno che le misure prese per limitare al massimo le entrate in carcere hanno funzionato meglio per gli italiani. Negli stessi periodi, le uscite di ragazzi stranieri sono passate dal 41,2% del 2019 al 48,6% del 2020. A un incremento dell’11,7% delle entrate ha corrisposto un incremento del solo 7,4% delle uscite. La denuncia della Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict) Di fatto, ciò evidenza che la crisi sanitaria conferma la minore capacità del sistema a sostenere le fasce più marginali. È ampiamente noto, infatti, che dall’inizio della pandemia sono soprattutto le fasce più deboli e fragili ad aver sopportato le conseguenze più drammatiche. Per questo è giusto segnalare la denuncia da parte di Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict). Nello specifico, riguardo l’ esperienza delle loro comunità educative per minori che si occupano in particolare di fragilità complesse, tra cui minori con patologie psichiatriche e disturbi del comportamento o con dipendenze patologiche, stanno riscontrando enormi difficoltà di gestione, considerando che, a causa delle ristrettezze dovute alle norme anti contagio, hanno registrato un aumento degli abbandoni volontari. In tali casi, peraltro, rimanendo fuori dalle comunità per diverso tempo, probabilmente senza le necessarie protezioni, diventa difficile il reinserimento in struttura. Infatti non è possibile lasciarli in isolamento 14 giorni, perché non riescono a reggere psicologicamente, e la loro particolare situazione di fragilità ci impedisce di rimandarli nelle famiglie a fare la quarantena. Né evidentemente possono temporeggiare per il reingresso, non solo per la loro situazione educativa e sanitaria ma anche perché molti di loro sono sottoposti a provvedimento giudiziario. Nelle comunità si continua a lavorare nostante la paura del Covid «Abbiamo dovuto sospendere già alcuni servizi diurni - racconta Squillaci durante al convegno organizzato dall’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei -, e già questo sta creando molti problemi, soprattutto ai ragazzi che avevano iniziato un percorso e che oggi rischiano di ritrovarsi per strada. Ma le difficoltà principali le abbiamo nei servizi residenziali, a ciclo continuativo che non possono e non devono chiudere, all’interno dei quali ci sono persone con problematiche importanti. E tutto è lasciato al nostro arbitrio».Nonostante la paura, racconta Squillaci, nelle comunità terapeutiche si continua a lavorare. «Viviamo storie di quotidiano eroismo - racconta il presidente della Fict - : i nostri operatori, tutte le mattine, nonostante la paura e spesso sprovvisti di qualsiasi protezione, si armano di quello che hanno e, con professionalità e passione, vanno sul posto di lavoro, spesso facendo doppi turni per coprire gli altri colleghi ammalati. In tantissime comunità ci si è dovuti arrangiare, costruendo le mascherine fai da te, perché siamo tagliati fuori da qualsiasi possibilità di distribuzione di dispositivi di protezione. Abbiamo dovuto spiegare ai ragazzi perché non si può uscire, perché non possono vedere i familiari, rientrare a casa. E abbiamo dovuto reinventare il programma giornaliero e le attività terapeutiche. Tutto da soli, e spesso senza alcuna indicazione da parte delle istituzioni preposte».Maggiori preoccupazioni riguardano le comunità del sud Italia. «Nel panorama già deficitario della sanità meridionale, dove le dipendenze erano già il nulla, mi chiedo cosa accadrà ai servizi e ai ragazzi – denuncia sempre Squillaci -. Il privato sociale in questo momento storico rischia di non reggere questa forte pressione. Oggi più che mai sappiamo che dobbiamo investire sulla sanità, sulle persone e soprattutto potenziare quelle realtà già deboli e fragili che ora sono travolte da questo tsunami».