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C’è una missione propria dell’avvocato: illuminare i fatti, far comprendere le ragioni. È l’arte del processo, che però la professione forense sa realizzare anche nella politica. E ieri, con la lettera che le massime rappresentanze dell’avvocatura e dei civilisti italiani hanno inviato a tutti i senatori, la forza della persuasione declinata in Parlamento ha offerto una prova straordinaria. Perché il Cnf, l’Ocf e l’Unione nazionale Camere civili hanno saputo sintetizzare in poche, chiarissime e nette espressioni la loro critica a una riforma complessa come quella del processo civile. Più precisamente, hanno chiesto di cambiare la forma che il ddl assumerebbe una volta integrato con gli emendamenti presentati due settimane fa dalla guardasigilli Marta Cartabia. E davvero non era facile essere così immediati nel descrivere problemi quei tecnico-normativi, innanzitutto per la limitata conoscenza che, del processo civile, si ha al di fuori degli operatori e dell’accademia. Una chiarezza che Cnf, Ocf e Uncc traducono nel seguente decisivo passaggio: «Tutti noi siamo convinti che, soprattutto in un momento in cui è in pericolo la stessa coesione sociale, nessuno debba rischiare sanzioni per avere chiesto giustizia, oppure di perdere la casa, il lavoro, i figli, i mezzi di sussistenza, per non essere stato abbastanza pronto nel fare valere», in una causa civile, «le sue ragioni, magari poi risultate evidenti». Parole che lasciano comprendere come dietro il linguaggio della procedura civile ci sia davvero la vita delle persone. La lettera è firmata dalla presidente facente funzioni del Cnf Maria Masi, dal coordinatore del’Organismo congressuale forense Giovanni Malinconico e dal presidente dell’Unione nazionale Camere civili Antonio de Notaristefani. I quali trovano «doveroso» partire da un «ringraziamento alla ministra della Giustizia per gli interventi sulla organizzazione della giustizia civile che, confidiamo, produrranno un effettivo miglioramento. Nello stesso tempo, però», scrivono i tre vertici dell’avvocatura ai senatori, «avvertiamo pure l’obbligo di precisarvi che alcuni emendamenti sulla disciplina del processo non soltanto lo renderanno meno giusto ma, nonostante gli intenti dichiarati, finiranno col rallentarlo. Ci riferiamo in primo luogo alla introduzione di preclusioni e decadenze, che», scrivono Masi, Malinconico e de Notaristefani, «le Sezioni Unite nel 2015, con la sentenza 12310, hanno affermato essere causa di ritardo del complessivo andamento della giustizia civile. Anche tutta la avvocatura si era espressa in questo senso, e la Associazione italiana fra gli Studiosi del processo civile ci ha informato di avervi illustrato, in relazione alla fase introduttiva del giudizio, le stesse perplessità». Quindi si ricorda: «Le Sezioni Unite, coloro che studiano il processo, e coloro che in esso ogni giorno difendono i cittadini e i loro diritti, ritengono che inasprire sin dagli atti introduttivi preclusioni e decadenze renderebbe la giustizia meno equa e celere finendo con impantanarla in discussioni interminabili su cosa è consentito e cosa non lo è». E qui forse si arriva al nodo centrale, e a un altro passaggio che, nella sua chiarezza, pare davvero in grado di illuminare gli aspetti ritenuti critici dall’avvocatura: «Noi vogliamo una giustizia che sia giusta e anche veloce: per ottenerla occorre che il confronto processuale si concentri su chi ha ragione e chi ha torto, non sulle regole di procedura o sulla correttezza formale degli atti. Il processo deve essere un mezzo, non un fine». Fino a quel passaggio sulle «sanzioni» che nessuno deve «rischiare» per il semplice fatto di «avere chiesto giustizia», e sul pericolo di perdere il bene della propria vita, «la casa, il lavoro, i figli», appunto, in un nevrotico gioco solo procedurale. «La certezza del diritto e l’effettività della giurisdizione civile», scrivo ancora i vertici di Cnf, Ocf e Uncc, «non si possono dissolvere in ragione di una paventata ma inefficace accelerazione dei tempi processuali. Certo, dobbiamo superare una pandemia e la crisi che ha determinato, e siamo consapevoli che occorra accettare un compromesso tra il dovere dello Stato di garantire la giustizia dei processi, e la richiesta dell’Europa di far loro produrre ricchezza. Diremmo, tra quel che la coscienza esige, e quel che il mondo della finanza impone. Ma», notano gli avvocati, «quell’emendamento è controproducente sotto entrambi gli aspetti. Non si tratta di rivedere una valutazione politica ma di porre rimedio a una scelta sbagliata da quello tecnico». Ecco perché, concludono Masi, Malinconico e de Notaristefani, «ci è parso giusto rivolgerci a Voi, che rappresentate quel popolo in nome del quale la Giustizia è amministrata, nella speranza che vogliate ascoltare l’appello unanime che nasce da Accademia e Avvocatura sulla scorta dell’indicazione delle Sezioni Unite: impedite un errore, le cui conseguenze pagheremmo tutti in modo assai caro».