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«In carcere mio figlio è pericoloso per se stesso e per gli altri». Quello di Loretta Rossi Stuart, madre di Giacomo Seydou Sy, è un grido disperato. Un grido che pensava di non dover lanciare più, dopo la condanna inflitta dalla Cedu all’Italia proprio per la vicenda relativa a suo figlio, trattenuto per due anni in carcere nonostante il suo stato di salute mentale. E ora che è finito di nuovo in cella, la situazione rischia di diventare tragica: «Chi sarà responsabile di ciò che può succedere all'interno del carcere?», si chiede la donna. Il giovane, che ha una diagnosi di disturbo bipolare borderline, è stato arrestato il 18 luglio a Roma per una presunta aggressione a scopo di rapina ai danni di un passeggero sul tram 14. All'arrivo dei carabinieri, il giovane - con un passato da pugile - ha reagito con violenza, al punto da rendere necessario l’utilizzo del taser per bloccarlo. E dopo la convalida dell’arresto, Seydou Sy è stato trasferito nel carcere di Regina Coeli, dove si trova rinchiuso da allora. Il fatto è finito subito su tutti i giornali: il giovane è infatti nipote del noto attore Kim Rossi Stuart, da lì titoli «roboanti» e notizie «inesatte», ha lamentato su Facebook Loretta Rossi Stuart - anche lei attrice e amministratrice di sostegno di Giacomo -, nelle quali non si faceva cenno allo stato di salute psichica del giovane. Che subito dopo l’arresto, «in evidente stato psicotico, ha compiuto gravissimi atti di autolesionismo». «Si ha sempre il bisogno di poter catalogare - spiega la donna -: è un malato di mente, è un criminale. Nessuna delle due, ha una doppia diagnosi e ancora non ci sono strumenti adeguati per trattare moltissime persone con questa particolare caratteristica». Una carenza del sistema che era apparsa evidente proprio “grazie” al suo caso: nel 2018, infatti, il giovane, all’epoca 24enne, era stato arrestato per furto, molestie nei confronti dell’ex fidanzata e resistenza alle forze dell’ordine. E anche se considerato «socialmente pericoloso», Sy è stato ritenuto consapevole solo parzialmente dei reati commessi, proprio a causa dei gravi disturbi psichici dai quali è affetto. Ma non solo: secondo quanto stabilito da diverse perizie, il suo disturbo di personalità, aggravato dall’utilizzo di sostanze stupefacenti, avrebbe richiesto cure e riabilitazione terapeutica al posto della detenzione, dunque non compatibile con il suo stato di salute. Nonostante questo e nonostante la Corte europea di Strasburgo abbia chiesto all’Italia di trasferirlo in un Centro Residenziale per l’esecuzione delle misure preventive (Rems), Giacomo è rimasto recluso a Rebibbia due anni, in quanto le autorità non sono state in grado di trovare un’alternativa al carcere. Proprio per tale motivo, la Cedu, il 24 gennaio scorso, ha condannato l'Italia per i trattamenti inumani e degradanti che sono stati riservati al giovane, stabilendo un risarcimento di 36.400 euro per danni morali. Dopo essere stato affidato «ad una valida Rems presso cui è in atto un percorso di recupero positivo; ancora fragile rispetto alla dipendenza da sostanze, riesce ad allontanarsi dalla struttura e, avendo fatto uso, compie atti illeciti in stato di squilibrio mentale - spiega la madre -. Viene arrestato, il giorno dopo è condotto dalla polizia penitenziaria al pronto soccorso del Santo Spirito, con evidenti segni di autolesionismo, ed è attualmente in un reparto di Regina Coeli dove, in tale stato psicotico, è esposto ed espone gli altri a situazioni di conflittualità difficilmente controllabili. Avrei pensato, visti i pregressi, che sarebbe stato urgentemente ricondotto nel luogo di cura a cui era affidato». Ma così non è stato: «Chi mi assicura che in carcere segua la terapia? E chi mi assicura che non faccia uso di sostanze stupefacenti?», si chiede ancora la donna, ora in attesa di una perizia che certifichi nuovamente la sua incompatibilità con il carcere. «Abbiamo vinto la battaglia a livello europeo, ma in Italia non si è mosso molto, nonostante anche la Corte costituzionale abbia sancito che esiste un problema a livello di Rems, dando un anno di tempo al governo italiano per sistemare la legge». Lo scorso 27 gennaio, infatti, la Consulta ha evidenziato i diversi profili di criticità dell’attuale normativa. Ad oggi, infatti, «il sistema non tutela in modo efficace né i diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche potrebbe nuovamente realizzare, né il diritto alla salute del malato, il quale non riceve i trattamenti necessari per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società». Da qui l’invito al legislatore a ridisegnare il sistema, assicurando un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza; la realizzazione e il potenziamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni e forme di idoneo coinvolgimento del ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle Rems esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale degli autori di reato, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario. «Giacomo - ha aggiunto Loretta Rossi Stuart - è peggiorato parecchio stando un anno in attesa di entrare in una Rems: cosa può accadere adesso?». La donna sta denunciando con tutte le sue forze la situazione del figlio, raccogliendo anche i racconti di altre madri che vivono la stessa situazione. «Più passa il tempo e più mi rendo conto che tante famiglie hanno il nostro stesso trascorso - testimonia infatti una donna - ma purtroppo nessuno fa nulla». Eppure anche la ministra Marta Cartabia ha posto l’accento sull’emergenza della salute mentale in carcere. «Un'emergenza tra le più urgenti - ha sottolineato a giugno scorso nel suo discorso alla Festa della polizia penitenziaria -. La pandemia ha acuito questo problema drammatico, che deve essere aggredito con una pluralità di interventi: i posti nelle Rems sono sempre insufficienti, anche se siamo riusciti a farne aprire di nuove; ma più in generale è l'insufficienza di servizi di cura della malattia mentale, all'interno e fuori dal carcere, a destare preoccupazione». E Giacomo Seydou Sy ne è ancora una volta testimone.