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Claudio Foti
«Le modalità fortemente pregiudizievoli con le quali l'imputato conduceva le sedute, anche mediante l'errato utilizzo della tecnica dell'Emdr, hanno provocato a Giovanna ( nome di fantasia, all’epoca 17enne, ndr) un disturbo di personalità borderline e un disturbo depressivo con ansia». È questo il motivo per il quale lo psicoterapeuta Claudio Foti è stato condannato lo scorso 11 novembre a 4 anni per lesioni e abuso d’ufficio in abbreviato nel processo sui presunti affidi illeciti nella Val d’Enza, mentre è stato assolto dall’accusa di frode processuale. Una sentenza breve, quella scritta dal gup Dario De Luca, che è partito da una premessa: la sua intenzione di non farsi condizionare dal «clamore mediatico indiscutibilmente assunto dalla vicenda», motivo per cui ha deciso di evitare qualsiasi riferimento al presunto “Sistema Bibbiano”.
Foti, secondo il giudice, avrebbe «veicolato in Giovanna il convincimento di essere stata oggetto di plurimi abusi sessuali e vessazioni psicologiche», provocando in lei grande sofferenza. Presunti abusi della quale è stata lei stessa a parlare prima ancora della terapia - alla zia e alla madre -, ma il cui ricordo, secondo il giudice, sarebbe stato invece instillato da Foti, che l’avrebbe spinta ad odiare il padre, in un processo di demolizione della sua figura condannato dal giudice, nonostante sia lui stesso a definire l’uomo un «violento». Da qui lo sviluppo di un disturbo di personalità borderline, del quale il percorso psicoterapeutico di Foti avrebbe rappresentato «una componente rilevante», attraverso modalità «scorrette ed invasive», dunque, suggestive, di cui non poteva non essere consapevole, motivo per cui è stato riconosciuto il «dolo diretto». Nessuna attenuante, spiega inoltre il gup, in quanto «l'imputato non solo non ha mai mostrato segni di resipiscenza, ma ha costantemente tenuto un comportamento processuale ampiamente censurabile». Il riferimento è quello che viene definito un «tentativo di ingannare il giudice»: nel corso del processo Foti ha infatti consegnato un video fino a quel momento mancante tra quelli depositati, sostenendo si trattasse di una seduta di aprile 2016.
Un modo per fregare il Tribunale, secondo il giudice, un mero errore materiale per la difesa, che una volta visto il filmato in aula e constatata l'incompatibilità dell’abbigliamento con il mese indicato ha corretto il tiro. Per il giudice, però, si tratta «di un elemento di portante rilevanza posto che in quel colloquio è Giovanna a parlare della possibilità che ad abusare di lei all'età di 4 anni possa essere stato il padre: è chiaro, dunque, come la scorretta collocazione temporale di tale seduta nell'aprile 2016 fosse inequivocabilmente volta ad accreditare, con tale deprecabile espediente, la tesi difensiva secondo cui Giovanna, autonomamente e a prescindere dall'intervento dello psicoterapeuta, già vedeva il padre come una figura abusante». E poco importa se a parlare delle problematiche della ragazza fosse stata proprio la madre della stessa, nel primo incontro tra Foti e la donna. L’assoluzione dall’accusa di frode processuale è semplice: non ci sono prove che Foti volesse inquinare il processo civile in corso davanti al Tribunale per i Minorenni di Bologna, avente a oggetto la responsabilità genitoriale.
Ed è solo questo il reato per il quale la famiglia di Giovanna si era costituita parte civile, chiedendo un risarcimento che il giudice ha dovuto, dunque, negare. Per il legale di Foti, Giuseppe Rossodivita, si tratta di una sentenza dalla quale «traspare evidente una pregiudiziale, apodittica e convinta ( e per questo poco convincente) adesione alle tesi dell’accusa, una costante e fuori luogo denigrazione della difesa e dei suoi consulenti, piuttosto che una confutazione delle argomentazioni e dei rilievi posti durante tutto il corso del processo». Un approccio tutt’altro che sereno, secondo il legale, preoccupato «dal substrato culturale che ha animato il giudizio».
L’errore di Foti, secondo Rossodivita, sarebbe stato infatti quello di aver demolito la figura paterna. «Qui c’è un padre che ha abbandonato la famiglia, un padre violento, un padre che ripetutamente non ha creduto alla figlia, come affermato dalla madre, un padre che ha denigrato la figlia quando, bambina di 13 anni, ha avuto un rapporto sessuale “presumibilmente non consenziente” – com’è scritto in sentenza - e però la colpa di Foti sarebbe quella di aver agito per far aprire gli occhi e la mente alla figlia giunta alla soglia dei 18 anni, provocando per questo, con le sue terapie viste come denigratorie della figura paterna, l’insorgenza di una sindrome di borderline, diagnosticata da una psicologa, non psicoterapeuta, non psichiatra, che non ha nemmeno somministrato i rituali test - ha commentato -. Per il Tribunale di Reggio Emilia e la sua consulente dr. ssa Rossi, il pater familias non può mai essere messo in discussione e va comunque onorato e rispettato».