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Roberto Arcella Prendiamone atto: una parte dell’avvocatura è nettamente schierata contro l’innovazione. Ed è una guerra che già molti avevano provato a dichiarare sette anni fa, quando si schierarono a difesa della “carta” contro il processo telematico. Eppure, oggi – salvo pochi giapponesi rimasti a presidio di quelle posizioni di retroguardia – nessuno osa negare i benefici che il PCT ha apportato al processo civile. L’odierno casus belli è costituito dalle udienze da remoto: uno strumento che sarebbe stato salvifico nel processo civile e che invece era e resta di discutibilissima applicazione nel processo penale. Tuttavia, nelle alte sfere delle maggiori associazioni di civilisti e penalisti ci si è inspiegabilmente uniti verso questo presunto comune nemico. Nei miei trent’anni di frequentazione quotidiana dei Tribunali non ho mai visto l’avvocatura unita. Non lo è stata all’indomani dell’entrata in vigore del Codice Vassalli, quando vivi furono i fermenti dell’avvocatura penalistica, ed i civilisti nicchiavano. Non lo è stata in occasione dell’entrata in vigore della Legge 353/1990, quando noi civilisti ci astenemmo per mesi e mesi dolendoci delle troppe decadenze previste nel “nuovo rito”: ed intanto i penalisti nicchiavano. Non siamo stati compatti neanche in occasione della riforma della Legge forense. Neanche la previdenza, il nostro futuro pensionistico, è stato un grado di unire l’avvocatura. Oggi, quella parte dei civilisti che fa capo alle Camere Civili si è schierata dietro lo stendardo portato dall’Unione Camere Penali che propugna un’idea di udienza penale tenuta necessariamente in un luogo fisico ed “in presenza”. Non potendo tuttavia spendere gli argomenti (più che validi) sottesi dalla lotta dei penalisti, questa parte ha dovuto far ricorso ad altre suggestioni. «Il Giudice ridotto a pixel», «il fuoco sacro della giustizia custodito nelle aule del tribunale», persino il sottilmente sessista «non si può pensare ad un giudice che tiene udienza da casa mentre la pentola bolle ed il bimbo frigna», ed altre simili amenità. Non credo che quei giudici fossero meno “credibili” sol perché costretti a tenere udienza in ambienti non proprio adatti allo scopo. Ciò che conta dei provvedimenti di giustizia non è l’aula in cui essi vengono letti. Non che l’aula di Giustizia, che è simbolo della Legge ed anche ambiente di lavoro, vada abolita. Ma non è l’aula che infonde autorevolezza alle sentenze: è l’efficacia persuasiva della motivazione giusta, e possibilmente ottenuta in tempi ragionevolmente brevi, che convince il soccombente a cessare le ostilità. A proposito dell’innovazione, così osteggiata i miei pensieri sono andati a quei procedimenti rinviati, e rinviati, ed ancora rinviati per la mancanza della prova una notifica di cancelleria, ai fascicoli “smarriti” ed alle file per le copie (con gli squallidi mercanteggi sottostanti). Ho ricordato l’alto decoro di cui la nostra Professione doveva vestirsi quando iscrivevamo a ruolo un cautelare: si doveva ripassare alle 13 per avere il numero di RG, “seguire” il commesso col fascicolo presso il giudice di gabinetto e perorare, dopo l’immancabile anticamera, un’udienza a breve compatibile con i tempi della richiesta di copie urgenti e le notifiche. L’udienza civile da remoto non andava osteggiata, come una parte dell’avvocatura ha improvvidamente fatto, così come non andava osteggiato il PCT negli anni passati. Un giudice è un giudice, così come un avvocato è un avvocato anche quando sono divisi da uno schermo, e persino da una cornetta telefonica. E lo erano anche quando il dirimpettaio di finestra non era in atteggiamenti consoni ad un Tribunale. Non è un’aula, come luogo fisico, che fa la differenza. La qualità della giurisdizione, ove venga meno, dipende sempre dall’uomo, giudice o avvocato che sia, dall’impegno che profonde nello svolgimento del proprio ruolo. Non è la corda che conduce il suicida alla morte, ma l’uso che questi ne fa. Non è la distanza tra due interlocutori che impedisce il confronto dialettico, ma la mancanza di rispetto reciproco della funzione che ciascuno degli attori del processo riveste. Se nell’emergenza l’aula diventa un luogo virtuale, nel quale le parti possono confrontarsi e dialetticamente esporre il proprio punto di vista giuridico, non bisogna farne un dramma: soprattutto perché tale eventualità mira ad evitare il rinvio puro e semplice delle cause, che incide in maniera spesso esiziale sui diritti delle parti contendenti. Occorre dunque prendere coscienza del fatto che il Palazzo di Giustizia, che è anche sì luogo di confronto, di aggregazione e di scambio culturale tra giuristi, non è al momento una risorsa disponibile: e penso soprattutto a quella trappola biologica che è il Palazzo di Giustizia di Napoli, tre grattacieli serviti da un vetusto e malfunzionante impianto di areazione forzata, con l’uso di ascensori che è necessità indefettibile.In questa fase, l’udienza civile da remoto andava senz’altro accettata come strumento emergenziale. Del resto, la norma era ed è a termine e l’utilizzo dell’adagio secondo cui «non c’è nulla di più definitivo che il provvisorio» appare davvero pretestuoso e patetico. Né dovevamo mischiarci con l’omologo dibattito sollevato dai penalisti, perché le due questioni viaggiano su piani totalmente diversi, non hanno nulla in comune e non possono costituire un unico vessillo per l’Avvocatura civilistica e per quella penalistica. La posizione di una parte dei nostri Colleghi civilisti sta segando nel punto sbagliato il ramo su cui siede l’Avvocatura. *avvocato del Foro di Napoli