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Maysoon Majidi non è una scafista
Assolta per non aver commesso il fatto. Si conclude con una piena assoluzione il calvario giudiziario di Maysoon Majidi, attivista curdo- iraniana ingiustamente accusata di traffico di esseri umani. La procura di Crotone, con la pm Rosaria Multari, aveva chiesto per lei 2 anni e 4 mesi di carcere e una multa di 1 milione e 125 mila euro. Ciononostante, il tribunale calabrese, presieduto dal giudice Edoardo D’Ambrosio, ha messo una parola fine ad ogni accusa al termine del dibattimento, assolvendo la donna con formula piena.
La vicenda risale a uno sbarco di migranti partiti dalla Turchia e approdati in Calabria, durante il quale a Maysoon Majidi era stato contestato il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. L’accusa poggiava su testimonianze fragili e contraddittorie, raccolte tra alcuni migranti presenti sull’imbarcazione. Questi, interrogati frettolosamente all’arrivo in Italia e mai più rintracciati, non fornirono prove concrete. A complicare il quadro, l’attivista aveva denunciato un tentativo di violenza subito proprio da parte di uomini che poi l’avevano accusata.
Le prime crepe nell’accusa emersero già il 22 ottobre scorso, quando il tribunale accolse la richiesta di scarcerazione presentata dall’avvocato Giancarlo Liberati. Le deposizioni raccolte in udienza smontarono gli indizi di colpevolezza, portando alla revoca della custodia cautelare dopo dieci mesi di detenzione nel carcere di Castrovillari.
Il caso, emblematico delle contraddizioni nelle politiche migratorie, ha catalizzato l’attenzione delle organizzazioni per i diritti umani, tra cui “A Buon Diritto”, associazione fondata e presieduta dall’ex senatore Luigi Manconi. L’attivista curdo- iraniana Maysoon Majidi, già esposta a rischi mortali in Iran per il suo impegno a favore delle donne e della minoranza curda, si è vista accusare di un reato per cui è prevista una pena da sei a sedici anni di carcere in Italia.
La svolta arrivò con le dichiarazioni del comandante turco dell’imbarcazione, Ufuk Akturk, che smentì ogni suo coinvolgimento. In una lettera al presidente della Repubblica durante lo sciopero della fame dello scorso luglio, Maysoon Majidi scriveva: «Ritengo che il mio arresto non sia solo un’ingiustizia, ma una macchia sulla tutela dei diritti umani che l’Italia afferma di difendere».
La sua storia riflette un dramma più ampio: migranti e attivisti criminalizzati per reati mai commessi, spesso trasformati in capri espiatori di un sistema che colpisce gli ultimi anelli della catena. Di fatto vengono bollati come scafisti, e subito scatta il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che in questi anni ha permesso di criminalizzare non solo le persone migranti non coinvolte nel traffico di esseri umani, ma anche i soccorritori.
Si tratta di un fenomeno molto complesso, in cui le persone che guidano le barche lo fanno per un’ampia serie di motivi difficili da semplificare. Come evidenziato dalle associazioni, chi guida le imbarcazioni è spesso vittima di coercizione o cerca semplicemente di sopravvivere, mentre i veri responsabili del traffico rimangono impuniti, nascosti nell’ombra.
Queste vicende si sviluppano nelle maniere più varie: dalle persone inserite in sistemi di sfruttamento, forzate violentemente a guidare un’imbarcazione, a coloro che si rendono protagonisti di importanti atti di eroismo e solidarietà per salvare le vite delle altre persone a bordo. L’assoluzione di Maysoon Majidi riaccende i riflettori sull’urgenza di riformare un quadro normativo che, nella lotta all’immigrazione irregolare, finisce per tradire i suoi stessi principi di giustizia.