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«La drastica diminuzione delle esecuzioni dimostra che persino gli Stati più riluttanti stanno iniziando a cambiare idea e a rendersi conto che la pena di morte non è la risposta», ha dichiarato Kumi Naidoo, segretario generale di Amnesty International. Al livello planetario, infatti, il numero delle esecuzioni capitali è calato del 30% e ha raggiunto il valore più basso che è stato registrato negli ultimi dieci anni. Questo è il dato positivo messo in evidenza dal rapporto di Amnesty International sulla pena di morte relativo all’anno 2018. Emerge dall’analisi che questo è il riflesso di una significativa riduzione delle esecuzioni complessive in alcuni di quei paesi che, come Iran, Iraq, Pakistan e Somalia, sono annoverabili fra quelli che eseguono più condanne a morte. Similarmente, anche il numero dei paesi che hanno eseguito sentenze capitali si è ridotto. Alcuni Stati, tuttavia, hanno forzato il trend generalmente positivo. La Thailandia ha eseguito la sua prima condanna a morte dal 2009 e altri paesi hanno presentato degli aumenti nel loro totale annuale, tra questi, Bielorussia, Giappone, Singapore, Stati Uniti d’America e Sudan del Sud. Hanno sollevato preoccupazioni ulteriori i considerevoli incrementi nel numero delle condanne a morte comminate in alcuni Paesi, in particolare Egitto e Iraq. Dati rari, resi accessibili pubblicamente dalle autorità del Vietnam, hanno dato conto dell’estensione del ritorno alla pena di morte nel paese, collocandolo fra i maggiori nel mondo.
Permane il segreto di stato relativamente all’uso della pena di morte in Cina. Si apprende dal rapporto che dal 2009 Amnesty International ha smesso di pubblicare le stime sull’uso della pena di morte in Cina, precisando che i dati in grado di confermare sono significativamente inferiori a quelli reali a causa delle restrizioni di accesso alle informazioni. Questa decisione è un effetto delle preoccupazioni su come le autorità hanno distorto il numero stimato da Amnesty International. «Ogni anno – scrive Amnesty-, viene rinnovata la sfida a rendere pubbliche le informazioni sull’uso della pena di morte, ma le autorità cinesi ancora si rifiutano di divulgare i dati». Dalle informazioni disponibili, tuttavia, emerge chiaramente che ogni anno in Cina avvengono migliaia di condanne a morte ed esecuzioni. A seguire l’ Iran ( almeno 253), Arabia Saudita ( 149), Vietnam ( 85) e Iraq ( almeno 52) Sull’altro versante, alcuni Paesi hanno compiuto, durante l’anno, passi in avanti verso l’abolizione totale della pena di morte. Il Burkina Faso ha abolito la pena capitale nel suo codice penale a giugno. Nel febbraio 2018, il presidente del Gambia ha proclamato una moratoria ufficiale sulle esecuzioni e, a settembre, il Paese ha sottoscritto il secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici, avente lo scopo di promuovere l’abolizione della pena di morte. Il governo della Malesia ha stabilito, a luglio, una moratoria sulle esecuzioni e, in ottobre, ha annunciato la futura riforma delle leggi in materia di pena di morte. Nello stesso mese, la legge sulla pena capitale è stata dichiarata incostituzionale nello stato di Washington, Stati Uniti d’America. Questi passi positivi hanno trovato riscontro in altri avanzamenti registrati a livello internazionale. «Il 17 dicembre – scrive Amnesty -, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato, con un appoggio quanto mai alto, la settima risoluzione che chiede ai paesi che ancora mantengono la pena di morte, di istituire una moratoria sulle esecuzioni, con la prospettiva di abolire la pena capitale». Dei 193 stati membri delle Nazioni Unite, 121 hanno votato in favore della risoluzione mentre 35 si sono espressi contro e 32 si sono astenuti. Il cresciuto appoggio alla risoluzione del 2018 costituisce un’indicazione aggiuntiva del fatto che il consenso globale si sta convogliando per consegnare la pena di morte al passato.