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Una vera e propria lezione di diritto. Si possono riassumere così le 172 pagine che motivano l’assoluzione in appello di Fausta Bonino, per sei anni conosciuta da tutti come “l'infermiera killer”. Un’etichetta atroce che le è rimasta addosso fino al 24 gennaio scorso, quando i giudici della Corte d’Appello di Firenze l’hanno assolta dall’accusa di omicidio volontario plurimo aggravato per le dieci morti avvenute nel reparto di rianimazione dell’ospedale Villamarina di Piombino (Livorno) tra il settembre del 2014 e il settembre del 2015. Un’assoluzione che è arrivata dopo una condanna all’ergastolo pronunciata, secondo i giudici d’appello, sulla base di un assunto «destituito di fondamento», che costituisce piuttosto «una ipotesi formulata in astratto, ma non corrispondente alla effettiva realtà dei fatti»: il reparto in cui sono avvenute le morti era infatti agevolmente accessibile a tutto il personale sanitario e parasanitario dell'ospedale di Piombino. E la sentenza di primo grado era basata, di fatto, sull’assunto che non esistessero spiegazioni alternative, ribaltando l'onere della prova sulla difesa. Nel ricostruire il ragionamento del giudice di primo grado, la Corte d’Appello si trova costretta a ricordare che non è consentito «fondare la prova critica su una circostanza soltanto possibile, quand’anche probabile o verosimile o, peggio, su una circostanza di cui sia meramente supposta l'esistenza, risolvendosi una tale operazione nel minare la base stessa del “ragionamento” inferenziale, in contrasto con la regola codificata per cui la responsabilità dell'imputato deve “essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio”». Una regola fondamentale, «perché, in presenza di un dubbio, non è possibile condannare in base al criterio di “quello che avviene nella maggior parte dei casi”, neppure se le probabilità della ipotesi accusatoria siano maggiori di quelle della tesi difensiva, neanche quando le probabilità siano notevolmente più numerose, essendo necessario che ogni spiegazione, diversa dall'ipotesi accusatoria, sia, secondo un criterio di ragionevolezza, non plausibile». È bastato sentire i nuovi testimoni chiesti dalla difesa, rappresentata dall’avvocato Vinicio Nardo, per ribaltare la situazione. Il giudice di primo grado aveva infatti ritenuto che alcuni elementi fossero assolutamente certi, ovvero la somministrazione del farmaco con un’iniezione diretta in vena, che si trattasse di un certo tipo di eparina e che questo determinasse la possibilità di calcolare il momento di somministrazione con una relativa approssimazione, arrivando a parlare della “costante Bonino”, perché l’infermiera, secondo quei calcoli, era sempre presente. L’ultimo presupposto dato per certo è che il reparto fosse perfettamente controllato con due porte munite di badge e che quindi non vi fossero dubbi su chi fosse presente. Ma i giudici smontano uno per uno i capi d’accusa, sottolineando come «sia il presupposto dell'uso di quella specifica sostanza (eparina sodica non frazionata) che quello del metodo di somministrazione (mediante iniezione endovenosa in bolo) sono elementi che avrebbero dovuto essere certi, in quanto costituenti la premessa maggiore del ragionamento accusatorio e, invece, non, lo sono - si legge -. Si tratta, inoltre, di presupposti che non possono essere modificati senza porre in crisi la validità del criterio attraverso il quale, mediante l'incrocio dei range con i turni del personale sanitario in servizio nel reparto di anestesia e rianimazione, si è pervenuti all'individuazione dell’attuale imputata quale unica persona “sempre presente” nei quattro casi e, quindi, ritenuta responsabile». È pure stato chiarito che l’effetto emorragico può prodursi in tempi notevolmente diversi (e variabili), dipendendo dalle condizioni personali, cliniche e terapeutiche del soggetto, nonché dalla sostanza utilizzata, dalla quantità e dal metodo di somministrazione. Inoltre, nell'ospedale di Piombino e nel reparto accorpato di anestesia-rianimazione e cardiologia «non è risultato esservi un registro di controllo sul carico e lo scarico dei farmaci, che erano quindi accessibili agevolmente e lasciati incustoditi sui carrelli». Ma non solo: «Il giudice di primo grado non si è neppure attenuto ai range ipotizzati dai periti, ma li ha rimodulati con criteri personali, senza considerare i dati probatori contrastanti, che ha ritenuto di superare con un ragionamento “circolare” che non poteva essere valido a prescindere dalle peculiarità dei singoli casi, sulle quali ha finito sostanzialmente per “glissare” ritenendo sufficiente il confronto con l’astratto e più volte richiamato “modello di azione dolosa del soggetto agente”». Gli ambiti temporali nei quali si ipotizza siano avvenute le somministrazioni della sostanza anticoagulante, «se anche fossero un dato certo - e non lo sono - non riportano a una persona ma, in relazione a ogni singolo periodo di tempo, a più sanitari». L’individuazione di Bonino si basa su due ipotesi: che l'omicida appartenesse al personale sanitario del reparto di anestesia e rianimazione e che a tale reparto non potesse accedere personale diverso. «Ma anche tali ipotesi non sono suffragate da elementi di prova risultando, anzi - si legge - che in due casi su quattro i pazienti erano stati appena trasferiti nel reparto di terapia intensiva dalla camera operatoria e, in un terzo, dalla medicina generale. Il reparto in questione non era un luogo “blindato”, ma era agevolmente accessibile e non era controllato da telecamere, neppure dopo l’inizio delle indagini. Il “criterio del cartellino” è solo probabilistico circa le effettive presenze nel reparto in una certa fascia oraria. Come si è già rilevato, il primario, i medici, la caposala, potevano presenziare anche oltre l'orario di lavoro o senza essere formalmente in servizio». Addirittura al reparto si accedeva attraverso una porta, diversa da quella munita di chiave e di citofono esterno utilizzata per il passaggio dei visitatori nell'orario consentito, che si apriva dall'esterno con una semplice “spinta”, che metteva in collegamento con la sala operatoria e con altri reparti e vi era una (terza) porta di servizio utilizzata per uscire dal reparto, spesso lasciata aperta o semplicemente “accostata”. «È quindi ipotetico l'assunto che l'omicida sia stato necessariamente un appartenente al reparto di anestesia e rianimazione, peraltro senza che sia emerso un movente o, comunque, un movente in grado di diversificare, sotto il profilo delle motivazioni, un infermiere dall'altro e, più in generale, un operatore sanitario dall'altro. L'infondatezza delle contestazioni relative agli altri episodi di omicidio - concludono i giudici - ulteriormente affievolisce il già labile quadro indiziario dal quale è stata desunta la riferibilità delle condotte alla Bonino».