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La Sala Zuccari è austera. Una delle più eleganti e affrescate del Senato. Di una certa solennità è anche il tavolo che Luigi Manconi sceglie per presentare la relazione finale della commissione Diritti umani, da lui presieduta nella legislatura appena trascorsa. Ma di una certa imprevedibile brutalità, visto il contesto, si rivela il messaggio di fondo fatto passare non tanto da Manconi quanto dai tre che appunto siedono con lui: il giudice costituzionale Giuliano Amato, il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick e il professor Luigi Ferrajoli, tra i massimi filosofi del diritto italiani e noto per la sfacciata sensibilità al tema delle garanzie. Ebbene, questi tre austeri signori dicono quasi in coro, ciascuno con le proprie opportune perifrasi: «Signori attenti, l’Italia diventa un Paese razzista ogni giorno che passa». Non era scontato che fosse questa, la conclusione. O forse un po’ sì.
Manconi, che è persona determinata nella difesa dei principi ma anche raffinatissima nella scelta dei messaggi, parte non a caso da inizio legislatura, e in particolare dalla sterzata impressa alla commissione un minuto dopo esserne stato eletto presidente: «Ho trovato una strada spianata dal proficuo lavoro della legislatura precedente, e in particolare da Pietro Marcenaro che aveva presieduto la ‘ Diritti umani’ prima di me: solo una cosa non mi convinceva, ed era l’orizzonte prevalentemente esotico a cui si guardava. Come se le violazioni dei diritti fossero solo roba lontana, da terzo o quarto mondo. Chiarii subito che avrei concentrato l’attenzione mia e degli altri senatori sulle violazioni a noi più vicine, dunque innanzitutto sull’Italia».
LE DENUNCE ( E UNA NOTIZIA) SUL 41BIS
E così in effetti si spiegano anche i lavori “specialistici” che l’organismo di Palazzo Madama ha prodotto in questi quattro anni e mezzo, messi a disposizione dei numerosi presenti all’incontro di ieri pomeriggio. Uno su tutti ha lasciato il segno, quello sul 41 bis, che ha ribadito l’incostituzionalità del regime detentivo speciale e la sua incompatibilità con le Convenzioni internazionali, soprattutto per quel dettaglio relativo ai pentimenti. «In due pronunce, la Corte costituzionale e la Cassazione hanno dovuto fare ricorso a vere e proprie acrobazie, per affermare che la scelta di collaborare con la giustizia corrisponde a un atto libero», segnala Flick, che sceglie di soffermarsi sul tema carcere a lui particolarmente caro. Peraltro le agenzie di stampa diffondono una notizia intrigante negli stessi minuti in cui il presidente emerito della Consulta lascia intravedere l’ombra della tortura, nella pretesa dello Stato di subordinare al pentimento i benefici per chi è al 41 bis. E la notizia è che la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha ammesso l’istanza di un mafioso di Lentini, Filadelfo Ruggeri, nella causa intentata da un altro “ergastolano ostativo”, Marcello Viola, condannato per reati estranei al criminalità organizzata. La prospettiva che si aptre a Strasburgo è la stessa segnalata nelle raccomandazioni della relazione presentata ieri: sancire la disumanità di una pena in cui ogni speranza resta preclusa a meno che non si ceda a una richiesta di “collaborazione”.
AMATO: L’ORRORE NAZISTA NON BASTA
Ma il tema forte dell’incontro voluto da Manconi è un altro, come detto: «Le violazioni dei diritti sono nelle società avanzate», introduce l’esponente del Pd ( incredibilmente non ricandidato). Amato lo segue a ruota: «Siamo di fronte a scenari nuovi. Il sovranismo ne è un segnale. Gli investitori stranieri che soprattutto nell’Europa dell’Est hanno tenuto bassi i salari e si sono portati via i profitti non hanno certo favorito la popolarità degli organismi sovranazionali», dice il componente della Corte costituzionale, «ma da qui si è arrivati a confrontarsi anche con diversità di religione e di pelle di fronte alle quali noi italiani ci siamo accorti di non essere esattamente come immaginavamo». E cioè, di essere un po’ razzisti? Amato ci arriva quasi con dolcezza: «Da giovane ho vissuto l’affermazione dei diritti civili negli Usa e il superamento dell’apartheid in Sudafrica. Eravamo rassicurati dalla nostra apparente superiorità, su quei temi, eppure oggi diamo per scontato che dire ‘ nigeriano’ equivalga a dire ‘ pusher’. Eppure, nonostante l’articolo 3 sancisca che tutti i cittadini hanno pari dignità, dimentichiamo la parità di trattamento persino nelle piccole cose: tra noi ci rivolgiamo col ‘ lei’, a un extracomunita- rio si dà fatalmente il ‘ tu’, come si faceva un tempo con i servi». Fino al colpo finale. «Dal nazismo abbiamo imparato che non si può essere condannati per essere ebrei, ma non lo abbiamo imparato rispetto ai rom e ai sinti».
FERRAJOLI: IUS SOLI, UN ‘ NO’ RAZZISTA
Come Amato, anche Ferrajoli parte dalle «disuguaglianze, che hanno prodotto povertà, si pensi ai ticket che impediscono l’accesso alle cure a una decina di milioni di persone nel nostro Paese», ma da lì arriva ai «centri di espulsione in cui i migranti vengono gettati e nei quali il controllo di legalità è lasciato alla burocrazia cieca dei giudici di pace». Non ce ne si occupa, dice Ferrajoli, «come non ci si è voluti occupare dello ius soli, che non ha a che fare con l’immigrazione: se una persona vive e studia in Italia deve essere tutelata, e se non lo si è fatto è solo per intolleranza razzista». Ecco, il professore che da magistrato contribuì a fondare Md pronuncia la parola terribile. Ma esorta anche al “ravvedimento”: «La garanzia di non espulsione per chi ha famiglia o un lavoro anche non regolare è una di quelle questioni su cui si gioca l’identità democratica dell’Europa».
IL GRIDO DI FLICK E LE FIRME DI BONINO
Se ne parlerà? Flick fa notare una cosa: «Il tema dei migranti è sostanzialmente identico a quello del carcere. Del quale si è deciso di non occuparsi in campagna elettorale per evitare di turbarla. Ma mi viene da dire: se non ora quando? Quando, se non in una campagna elettorale in cui è stato persino segnalato un rischio per la razza bianca, per giunta nel momento in cui la genetica dimostra che le razze non esistono?». A parte il «provincialismo», dice il presidente emerito della Consulta, «qui c’è da fare i conti con il reclutamento nelle armate della paura che vedono nel diverso un nemico». Siamo sempre lì, a quell’allarme razzismo che spinge Flick e gli altri ad auspicare «il passaggio della commissione Diritti umani dal rango di ‘ speciale’ a quello di ‘ permanente’». Tutti ringraziano Manconi per aver creato i presupposti di un simile sviluppo, lui ringrazia i senatori che lo hanno accompagnato in questi cinque anni, ma anche i parlamentari presenti in sala: Binetti, Errani, Zanda, insieme con una nutrita pattuglia radicale ( versante Radicali italiani- Più Europa): Filomena Gallo, Riccardo Magi e una Emma Bonino che regala almeno la lieta novella finale. «Ho raccolto le firme di tutti i gruppi tranne Fratelli d’Italia», dice invitata da Manconi sul palco, «per ricostituire la commissione, con un appello a farla diventare permanente. C’è pure la Lega, ha firmato un attimo fa». Nella deriva razzista, Manconi deve aver piazzato qualche argine capace di reggere, a quanto pare.