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Un detenuto minorenne del carcere campano minorile di Airola avrebbe inviato foto, dall’interno della cella, a emittenti locali e, addirittura, avuto accesso a chat porno con i dispositivi telematici messi a disposizione per i colloqui? Tutto falso. Qualche settimana fa i mezzi di informazioni, compresi quelli tv, hanno sbattuto in prima pagina il recluso minorenne prendendo per buona una nota del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. Il garante regionale Samuele Ciambriello ha smentito tutto, ricostruendo la verità fatti. Durante la famosa videochiamata la madre di un detenuto al temine del colloquio ha scattato la foto del figlio, in compagnia di un altro giovane che doveva effettuare la successiva telefonata. Questa immagine è diventata uno ”screenshot”, realizzato dalla mamma del giovane e imprudentemente inviata all’emittente locale “Campania 1”. Dopo le telefonata l’agente di polizia penitenziara, controllando il tablet, ha scoperto il tentativo, da sottolineare il tentativo, di connessione con un sito porno apparso per pochi istanti sullo schermo, forzando il sistema di protezione del dispositivo.Quindi non c’è stato alcun collegamento con siti porno, alcun invio di foto o altro direttamente a tv e radio locali. «Chi riparerà al danno arrecato? È l’autogol dei sindacalisti sarà sanzionato?», si chiede Ciambriello. «Il problema non era e non è se informare o non informare – osserva il garante regionale -, il problema esiste su come informare, specie quando si tratta di minori. Ci vogliono, da tutte le parti in causa, segnali più concreti dell’esigenza di proteggere i minori, i soggetti più deboli, dalle conseguenze possibili di una non corretta informazione anche con i nuovi mezzi di informazione». Il garante campano Ciambriello poi ci va giù duro: «Ci vogliono azioni disciplinari sia su chi dal carcere manda notizie false e strumentalizza i ragazzi e le criticità interne per far emergere eventuali problemi organizzativi dell’Istituto, sia verso giornalisti che non verificano fonti e notizie».Di certo è un periodo dove si fa a gara a dare notizie scandalistiche sul carcere. Dal tema “scarcerazioni” (termine sbagliato) al presunto utilizzo impertinente dei mezzi telematici per effettuare i colloqui. Sindacati a parte, ancora una volta nasce il problema deontologico del giornalismo. Allora vale la pena ricordare che nel testo unico del giornalista viene contemplata anche la “Carta del carcere e della pena” o più semplicemente la “Carta di Milano’’, un protocollo deontologico obbligatorio per tutti i giornalisti italiani. La Carta riafferma il dovere fondamentale di rispettare la persona detenuta e la sua dignità, contro ogni forma di discriminazione, tenendo ben presente i principi fissati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalla normativa europea. Negli otto articoli della Carta si ribadisce il valore di ogni azione che tenda al reinserimento sociale del detenuto, un passaggio complesso che può avvenire a fine pena oppure gradualmente, come prevedono le leggi che consentono l’accesso al lavoro esterno, i permessi ordinari, i permessi premio, la semi - libertà, la liberazione anticipata e l’affidamento in prova al servizio sociale. Raccomanda l’uso di termini appropriati in tutti i casi in cui il detenuto usufruisca di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari, un corretto riferimento alle leggi che disciplinano il procedimento penale, una aggiornata e precisa documentazione del contesto carcerario, un responsabile rapporto con il cittadino condannato non sempre consapevole delle dinamiche mediatiche, una completa informazione circa eventuali sentenze di proscioglimento e tenere conto dell’interesse collettivo ricordando, quando è possibile, i dati statistici che confermano la validità delle misure alternative e il loro basso margine di rischio. Viene rispettato tutto ciò, come la deontologia impone?