Ai cronisti il file di Word della sentenza: processo mediatico 4.0
Giallo a La Spezia sul "documento di lavoro" (che doveva restare nei pc della Corte d'Assise) della condanna di Marzia Corini per la morte del fratello
Vabbe’, una certa concomitanza fra uffici giudiziari e redazioni giornalistiche è ormai acclarata. Ma nonostante la cronaca ne offra continui esempi, ci sono sempre nuove assonanze da scoprire. C’è un caso recente, relativo a un processo di grande clamore: quello che ha visto condannata l’anestesista Marzia Corini per l’omicidio, così qualificato dalla sentenza, del fratello Marco Valerio, morto esattamente 6 anni fa, il 25 settembre del 2015. Storia che aveva tutti i numeri per attrarre l’attenzione dei giornali. Una persona, il compianto avvocato Corini, notissimo, oltre che facoltoso: era stato difensore fra gli altri di Gianluigi Buffon e grande amico di Zucchero. Un destino tragico, quello del professionista, spentosi a soli 50 anni per un tumore. Un’eredità consistente. Una sorella anestesista, Marzia appunto, che gli ha praticato una sedazione profonda quando il povero avvocato Corini era già alle cure palliative, consumato dal cancro. La morte che per l’accusa, e la Corte d’assise di La Spezia, sarebbe conseguenza non della gravissima malattia ma dei farmaci somministrati dalla sorella. Una tragedia, ma non priva dunque di aspetti in grado di catturare l’attenzione, anche un po’ morbosa, dei media e del grande pubblico. Fin qui nulla di diverso da tanta letteratura mediatico-giudiziaria. C’è però un dettaglio: la sentenza, appena depositata, è finita quasi in tempo reale, lo scorso 10 agosto, in file di Microsoft Word alle redazioni dei giornali, senza che alla cancelleria risultassero richieste di copia depositate da altri se non dai difensori degli imputati. Curioso. Una novità, appunto, considerato che non risulta alcun soggetto esterno all’Ufficio giudiziario che fosse in possesso della sentenza nel suo formato digitale consueto, il Pdf, e che potesse quanto meno consentire ai media di convertirlo nella più fruibile versione Word. A poche ore dal deposito delle motivazioni, avvenuto il 9 agosto, il file nell’insolito — per una sentenza — formato “di lavoro”, era a disposizione della Nazione e del Secolo XIX, dalle cui redazioni è stata inoltrata ad altri quotidiani. Eppure atti del genere non sono certo disponibili in quella modalità. E costano: 250 euro. Vanno richiesti in cancelleria: in quella del Tribunale di La Spezia, ad agosto, non si sono presentati altri se non gli avvocati di Marzia Corini e dell’altra donna condannata, Giuliana Feliciani. Insomma, non si sa come sia stato possibile che in così poche ore, il tempo di acquisirlo e riversarlo negli articoli dei giornali locali liguri, toscani e lombardi, il documento digitale sia arrivato in quell’insolito formato ai certamente abili cronisti.
Esposto dei legali al Csm: «Quel file era editabile»
Non si sa, e vorrebbe saperlo però la difesa della dottoressa Corini. La 57enne anestesista è stata a lungo in servizio all’ospedale Cisanello di Pisa, da molti anni è volontaria per Medici senza frontiere e Croce rossa internazionale, si è sempre professata innocente e già prepara ricorso in appello contro la pesante condanna: 15 anni di carcere. Così l’avvocata Anna Francini, professionista dello studio del professor Tullio Padaovani, difensori di Marzia Corini, ha rivolto al Csm quella stessa domanda: com’è possibile che la stampa sia entrata in possesso di un “file di lavoro” che avrebbe dovuto essere nella sola disponibilità del collegio giudicante? Soprattutto, non è anomalo che un documento così delicato circoli in un formato per definizione modificabile? Sono interrogativi che la professionista del Foro di Pisa rivolge all’organo di autogoverno dei magistrati in un esposto. Inviato, lo scorso 21 settembre, anche ai due titolari dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe: la guardasigilli Marta Cartabia e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. L’avvocata Francini segnala come l’11 agosto scorso — cioè il giorno dopo quello in cui i legali avevano chiesto alla cancelleria del Tribunale spezzino copia della sentenza, ritirata in cartaceo il giorno stesso dalla difesa Feliciani e solo il 31 agosto dalla difesa Corini — sia la Nazione che il Secolo XIX «hanno dato la notizia del deposito della sentenza riportando ampi stralci della stessa, con citazioni fedeli e puntuali, con tanto di virgolettato, e hanno riportato alcuni passaggi della motivazione».
«Violate le norme sui rapporti coi media»
Leggi alla mano si tratta di un’anomalia. Perché, come ricorda la legale di Corini, i rapporti fra Uffici giudiziari e stampa sono regolati da norme ben precise, e «nei fatti come sopra esposti non sembra di poter rilevare il rispetto» di quelle regole. Si tratta di un «fatto estremamente grave», si legge nell’esposto, considerato che i cronisti sono venuti in possesso «dell’indice della sentenza e della sua parte motiva in forma word, quindi liberamente editabili». È alquanto singolare, per Francini, che «i due files, in quella forma, siano pervenuti nella disponibilità di una pluralità di soggetti diversi dai componenti del Collegio della Corte d’Assise, tant’è che una copia degli stessi (senza intestazione né timbro di deposito né sottoscrizione) è stata inoltrata a un collega di una testata del Nord Italia», come l’avvocata documenta con una mail, riportata nell’esposto. Uno dei passaggi più delicati, nella segnalazione inviata a piazza Indipendenza, riguarda il fatto che il file (sarebbe meglio dire il doppio file)in formato Word sia giunto «quanto meno» ai giornali. Un atto delicatissimo come una pronuncia di primo grado nella sua “forma digitale grezza” su un caso di omicidio, insomma, avrebbe ballato in modo imprecisato e perciò preoccupante, segnala la penalista. In Word, quel documento, poteva essere solo nei pc della Corte d’assise. È finito in giro come se niente fosse, nella forma in cui non sarebbe mai dovuto arrivare all’esterno dell’Ufficio. Una liberalizzazione degli atti giudiziari. Che a qualcuno potrà suonare come segno di progresso. Ma che in realtà è l’ennesima, disarmante anomalia della giustizia penale italiana.