Una sentenza, la prima nel merito, ribadisce il primato dei diritti fondamentali sulla logica securitaria. Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha rigettato il reclamo presentato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), con l’ausilio della Procura di Reggio Emilia, contro l’ordinanza che consentiva a un detenuto in regime di alta sicurezza nel carcere di Parma di effettuare colloqui intimi con la moglie senza il controllo visivo della polizia penitenziaria. La decisione, da poco depositata, chiude una battaglia legale durata oltre un anno, condotta dall’avvocata Pina Di Credico, e segna un punto di svolta nell’applicazione della sentenza numero 10/2024 della Corte Costituzionale, che ha riconosciuto il diritto all’affettività intramuraria come espressione della dignità umana.

Una battaglia quasi infinita

Il detenuto, condannato per reati di associazione mafiosa con metodo camorristico e attualmente recluso nel carcere di Parma con fine pena previsto per il 23 novembre 2026, aveva presentato nel marzo 2024 una richiesta per colloqui intimi con la moglie. La direzione del carcere aveva opposto un diniego, motivandolo con l’assenza di linee guida operative da parte del DAP e con la presunta “pericolosità sociale” del detenuto, legata al suo passato criminale. Il 7 febbraio scorso, il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, Elena Bianchi, aveva accolto il reclamo dell’avvocata Di Credico, ordinando alla direzione di consentire i colloqui entro 60 giorni.

Una vittoria apparente, subito ostacolata dal DAP, che aveva presentato un’istanza di sospensiva (poi rigettata) e, infine, un reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, sostenendo che la decisione violasse i criteri di sicurezza e ignorasse la pericolosità del detenuto, corroborata da una nota della Direzione Distrettuale Antimafia (Dda di Napoli, nella quale, in realtà, non emergeva alcuna indagine attuale nei suoi confronti. Dunque, una “pericolosità” legata al reato che, tuttavia, sta finendo di scontare.

Il Tribunale di Bologna, presieduto dalla dottoressa Maria Letizia Venturini, ha respinto tutte le argomentazioni del Dap e della Procura, confermando l’ordinanza del Magistrato di Reggio Emilia. Nel cuore della sentenza, estesa su dodici pagine di motivazioni, risuonano due principi cardine che ridisegnano i confini tra i diritti dei detenuti e le esigenze di sicurezza. Il primo atto della riflessione giudiziaria ha smontato la nebulosa nozione di “pericolosità” brandita dal Dap, operando un taglio netto tra due concetti spesso confusi: la pericolosità interna e quella esterna.

La prima, ha spiegato il Tribunale, riguarda esclusivamente il rischio che un detenuto, durante i colloqui, possa minacciare l’ordine dentro le mura del carcere, ad esempio organizzando evasioni, passando oggetti illeciti non mantenendo la disciplina. La seconda, invece, si riferisce ai legami che il recluso mantiene con la criminalità organizzata al di fuori del penitenziario, elemento cruciale per valutare benefici come i permessi premio, ma irrilevante quando si discute di un diritto esercitato all’interno della struttura. Nel caso specifico, il Tribunale ha scandagliato ogni documento, trovando conferma in un dato incontrovertibile: in tredici anni di detenzione, l’uomo non ha mai macchiato la sua condotta. Partecipa a programmi di reinserimento, lavora regolarmente, versa contributi al fondo per le vittime di mafia e, attraverso un percorso spirituale con i Testimoni di Geova, ha manifestato un distacco tangibile dal suo passato camorrista.

Le note della Dda di Napoli, citate dalla Procura di Reggio Emilia, pur dipingendo un ritratto cupo degli anni precedenti alla carcerazione, non hanno prodotto un solo indizio su presunti legami attivi con la camorra. Sostanzialmente, il carcere non è una condanna all’oblio, ma un luogo dove il cambiamento, se autentico, va riconosciuto. E questo vale anche per chi ha commesso delitti mafiosi. Il secondo pilastro della sentenza ha consacrato l’affettività come diritto costituzionale inalienabile, seppur modellato dalle esigenze detentive. Citando a più riprese la Corte Costituzionale — «Lo stato di detenzione non può annullare il diritto all’affettività» — e la Cassazione — «Coltivare relazioni familiari non è una mera aspettativa» —, i giudici hanno bollato il controllo a vista come «una compressione sproporzionata e un sacrificio irragionevole della dignità della persona». Un’ingerenza ammissibile solo se sorretta da ragioni concrete di sicurezza, assenti in questo caso.

Paradossi e contraddizioni

Il Tribunale ha smontato le tesi del Dap, evidenziando paradossi logici. Mentre il Dap definiva il detenuto “pericoloso” per i colloqui interni, aveva proposto di avviarlo a una sperimentazione esterna con permessi premio, un regime a maggior rischio. Il reclamo del DAP, accompagnato dalle osservazioni della Procura che citavano una nota della Dda, non riportava alcuna pericolosità attuale e ometteva la relazione del gennaio 2025 dell’équipe penitenziaria, che descriveva un detenuto che ha avuto una rivisitazione critica del suo passato, distaccatosi dal contesto criminale e impegnato in un percorso religioso con i Testimoni di Geova. Il Dap ha lamentato l’assenza di una “cornice normativa” per i colloqui, ma il Tribunale ha ribadito che, in attesa di leggi, spetta alle autorità garantire subito i diritti, adattando gli spazi esistenti.

Raggiunta da Il Dubbio, l’avvocata Pina Di Credico ha commentato con rigore giuridico e passione civile la sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna: «Nelle mie valutazioni difensive ho chiesto esplicitamente al Tribunale di Sorveglianza di pronunciarsi sul concetto di pericolosità sociale ai fini della fruizione dei colloqui intimi, rimarcando come debba distinguersi la “pericolosità interna”, afferente al rischio che il detenuto possa pregiudicare l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituto, dalla “pericolosità esterna”, desumibile dalle note della Dda, precisando che essa rappresenta un parametro di valutazione per la concessione dei permessi premio all’esterno. I colloqui intimi debbono avvenire all’interno del carcere, laddove occorre verificare solo che non vi siano ragioni per ritenere che le effusioni amorose tra il detenuto e la propria moglie o convivente possano costituire un pericolo per la sicurezza del penitenziario».

Prosegue la legale spiegando che il Tribunale di Sorveglianza ha recepito in toto le sue valutazioni, «chiarendo definitivamente il distinguo tra “pericolosità interna” e “pericolosità esterna” e ribadendo come, peraltro, nel caso di specie non vi sia neppure una pericolosità esterna, in quanto la pericolosità attuale di un detenuto non può desumersi dalla caratura criminale evincibile dalle sentenze di condanna intervenute prima dell’esecuzione della pena».

La sentenza ribadisce che la giustizia non può essere cieca di fronte al cambiamento. Se un uomo, pur segnato da un passato oscuro, dimostra di aver intrapreso un percorso autentico, lo Stato ha il dovere di riconoscerlo. Altrimenti, a cosa servirebbero i principi costituzionali? Al Dap non resta che il ricorso in Cassazione, ma forse bisogna arrendersi all’evidenza. L’affettività è un diritto che non può essere compresso basandosi su sentenze passate, motivo per il quale sta scontando la pena.

Nel frattempo la Corte Europea ha condannato l’Italia per violazione del diritto alla salute nel caso Niort c. Italia. Il detenuto, affetto da gravi disturbi psichiatrici aggravati in carcere, aveva tentato più volte il suicidio senza cure adeguate. Nel 2022, il Magistrato di Sorveglianza ne aveva disposto il trasferimento in una struttura idonea, ma la richiesta – erroneamente indirizzata al Dap anziché all’autorità sanitaria – rimase inevasa. La CEDU ha riconosciuto violazioni degli articoli 3 (trattamenti inumani) e 6 (accesso alla giustizia), su ricorso degli avvocati Antonella Mascia, Antonella Calcaterra e del docente Davide Galliani (Statale di Milano).