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Un grimaldello utile ad accertare altri reati dei politici locali? O piuttosto il virus che paralizza la politica? L’abuso d’ufficio è in ogni caso uno dei grandi assenti nel dibattito sulla giustizia. Se ne discute poco. Troppo grande il peso di questioni come il Codice antimafia, le intercettazioni o la prescrizione, perché possa trovare spazio un’urgenza sentita dai sindaci più che dai deputati. Ma più di un segnale dovrebbe incoraggiare maggiore attenzione al tema. E spingere a qualche intervento correttivo quanto meno sugli effetti prodotti dal reato in virtù delle sospensioni che la legge Severino gli ricollega. A segnalare ancora una volta il peso di tale fattispecie per la vita pubblica è il caso del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, finito nel mirino della Procura di Locri per attività connesse all’accoglienza dei migranti, terreno sul quale il suo Comune dovrebbe essere considerato un piccolo, virtuosissimo esempio.
Vero è che a Lucano i pm contestano anche altro. Addirittura concussione e truffa. Ma è difficile allontana- re il sospetto che le ipotesi più gravi siano meno robuste e che ad aver attirato l’attenzione dei magistrati, dopo quella della prefettura, sia stato qualche «eccesso di potere», come lo definiscono i giuristi, che il primo cittadino calabrese potrebbe aver compiuto. In attesa che l’inchiesta chiarisca i fatti, ci sono però un punto fermo e un possibile vizio di sistema. Il punto fermo è che il ministero dell’Interno, dopo le ripetute acquisizioni di atti da parte della prefettura di Reggio Calabria, aveva concluso che nel “Sistema Lucano” non c’è nulla di illecito e invitato il sindaco ad andare avanti. Il vizio di sistema è nel fatto che questa storia dell’abuso d’ufficio, non solo quella di Riace, riguarda ormai pochissimo gli eletti in Parlamento: il sistema delle liste bloccate fa in modo che siano sempre meno coloro che vi arrivano dalla politica molecolare dei territori.
L’APPELLO DI CANTONE
È forse anche per questo che nel corso della legislatura non si sono viste mobilitazioni né per ridefinire il reato né, soprattutto, per correggere la norma della Severino secondo cui chi ne risulta colpevole anche in via non definitiva viene sospeso dalla carica. Nessun sussulto, nessun tentativo parlamentare degno di nota. Resta inascoltato Enzo De Luca, presidente della Campania, che ha avuto le sue traversie per via del combinato disposto abuso d’ufficio-Severino. Ignorati i suoi appelli, anche recenti, a cambiare la legge del 2012. Ma davvero non vale la pena di occuparsene? Non tutti la pensano così. È stato addirittura il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone a chiedere «una restrizione delle condotte punibili, che individui in modo più puntuale quelle che perseguono interessi personali o determinano ingiusti vantaggi attraverso atti illegittimi nella pubblica amministrazione». Altrimenti, ha aggiunto il vertice dell’Anac, molti amministratori finiscono per essere «effettivamente bloccati nel loro operato perché temono di finire sotto inchiesta». Dovrebbe bastare, no? I più esigenti potrebbero dare uno sguardo anche alle recenti dichiarazioni di Andrea Orlando, ministro della Giustizia. Che, interpellato da Corriere tv sulla Severino, ha escluso interventi che possano risolvere la questione Berlusconi, ovvero la retroattività delle norme, ma su un punto si è voluto sbilanciare: «Andrebbero fatte delle riflessioni sulla decadenza prima della sentenza definitiva» e «sugli effetti» che la legge può avere «sulla vita politica locale».
Si muoverà qualcosa, nella prossima legislatura? Intanto bisogna intendersi su cosa davvero si possa modificare. «Se guardiamo alla norma che regola l’abuso d’ufficio in sé non si può dire che si tratti di una fattispecie strutturata in modo poco garantista», fa notare uno dei pochi parlamentari davvero tecnicamente affidabili in materia penale, il presidente della commissione Giustizia del Senato Nico D’Ascola. «Una sentenza della Corte costituzionale del 1998, la 447, aveva recepito una precedente pronuncia della Cassazione e ulteriormente circoscritto il campo d’applicazione della norma. Se c’è uno spiraglio che può forse favorire un’applicazione estensiva, è in una successiva sentenza delle Sezioni unite, la 155 del 2011, che ha inserito l’eccesso di potere nel campo dei comportamenti riconducibili al quel reato. Ma la sentenza riguardava un magistrato, e sono stati i Tribunali di merito a ritenere che la pronuncia della Cassazione potesse riverberarsi su vicende riguardanti pubblici amministratori». Possibile che l’ambivalenza di quel profilo, l’eccesso di potere, consenta un “abuso dell’abuso d’ufficio” in sede giudiziaria? «Ripeto», dice D’Ascola, «l’applicazione di una norma non dipende dal legislatore che l’ha scritta. Né quella norma in sé conteneva implicitamente l’uso che se n’è fatto: mi riferisco per esempio agli effetti che il reato produce in base alla legge Severino». E i danni causati dalla larghezza concettuale dell’“eccesso di potere” e dalle sospensioni sono persino difficili da misurare. I sindaci che hanno il coraggio di giocare alla roulette russa con la loro fedina penale sono sempre più rari, e la paralisi dell’attività amministrativa, se non è totale, si diffonde come un morbo contagiosissimo.
LA CLASSE POLITICA TERRITORIALE
A questo si aggiunga il fatto che le indagini, i processi e le conseguenti sospensioni rischiano a loro volta di decimare una generazione di politici legati al territorio già impoverita dallo scadimento generale della qualità. I più in gamba sono spesso anche i più coraggiosi, che rischiano, e ci lasciano le penne, in modo da vedersi stroncata anche la prospettiva di un futuro eventuale grande salto verso il Parlamento nazionale. Dove, in ciascun partito, si fa spazio a chi non ha rischiato nulla, se non di esagerare nei corteggiamenti ai capibastone che compilano le liste.