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Giovanissimi abbandonati nelle carceri, in cella con adulti che una volta fuori rischiano di ritornare a delinquere. La pena deve tendere al reinserimento del condannato nella società. Questo è il senso dell’articolo 27 della nostra Costituzione, ma il carcere non riesce a concretizzarlo nonostante il nostro ordinamento penitenziario preveda diversi percorsi trattamentali.
Se il detenuto è un “giovane adulto”, ovvero in una età compresa tra i 18 e i 24 anni, la questione diventa più drammatica. Non parliamo degli istituti minorili, ma proprio delle carceri per adulti dove sembrerebbe che esista una condizione di vero e proprio abbandono. Il risultato è che i giovani rischiano di non essere più recuperati e una volta fuori, ripiombano nella frequentazione di quei contesti ambientali dannosi. Ed è ciò che emerge da una interessantissima ricerca relativa al carcere di Torino. Un caso che dovrebbe fare scuola e può essere di grande utilità per il ministero della Giustizia, in particolare il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti dei detenuti di Torino, a fine dicembre 2022 ha pubblicato con Cecilia Blengino, professoressa di Sociologia del Diritto all’Università di Torino, un’indagine dal titolo “Giovani dentro e fuori. Un’indagine per conoscere la popolazione giovanile nella Casa Circondariale di Torino”, una ricerca che ha coinvolto le studentesse e gli studenti della Clinica Legale Carcere e Diritti I del Dipartimento di Giurisprudenza di UniTo. A quest’indagine quali- quantitativa sulle condizioni sociali e detentive dei giovani reclusi, per cui poi si tenta l’elaborazione di proposte concrete di miglioramento, si affiancano preziosi contributi specialistici attorno ai temi della devianza giovanile.
Come è stato ricordato in occasione della conferenza stampa di fine anno del Consiglio comunale, richiamando l’episodio dell’evasione dall’Istituto penitenziario minorile Beccaria di Milano e le reazioni dell’opinione pubblica, scontiamo un cronico ritardo nell’approccio al tema della privazione della libertà personale della fascia più giovane della popolazione e, più in generale, alle tante fragilità sociali in cui questa è immersa. Un lavoro che, non a caso, è stato dedicato alla memoria di Alessandro Gaffoglio, 24enne che la scorsa estate ha perso la vita nel carcere della città di Torino.
Per comprendere la dimensione del problema, bisogna partire dai dati raccolti. Dall’indagine si apprende che il 68,5% dei giovani adulti a cui è stato sottoposto il questionario non ha avuto alcun tipo di contatto con i componenti dell’area trattamentale della Casa circondariale nel momento in cui hanno varcato la sezione dei cosiddetti “nuovi giunti”. Ed è un dato importante, perché tali sezioni – almeno sulla carta – servono per accogliere i detenuti che hanno da poco fatto ingresso all’interno dell’Istituto. La ratio dell’istituzione di questo “servizio” è quella di tutelare “soggetti giovanissimi o anziani, tossicodipendenti, soggetti in condizioni fisiche o psichiche non buone o comunque in condizioni di particolare fragilità” che entrano in carcere per la prima volta.
Non solo. Nel capitolo della ricerca dove le autrici esprimo delle riflessioni in base ai dati raccolti, viene sottolineato che durante il periodo di reclusione in queste sezioni, dovrebbe essere svolto un primo colloquio con uno dei componenti del presidio psicologico (non appartenente all’Asl penitenziaria, ma affidato agli esperti ex art. 80 dell’ordinamento penitenziario), che ha l’obiettivo di valutare il rischio suicidario della persona e di accelerare i tempi di una efficace presa in carico da parte di tutti gli operatori penitenziari, la quale può compiutamente avvenire solo dopo l’assegnazione del soggetto presso una sezione ordinaria.
Si osserva che il passaggio all’interno del reparto “nuovi giunti” dovrebbe quindi protrarsi per il tempo strettamente necessario allo svolgimento di tali valutazioni, al fine di garantire a pieno la tutela del diritto alla salute della persona ristretta. «Questa necessità – prosegue la riflessione - risulta ancor più urgente se si pensa che la vita penitenziaria in questi particolari luoghi si svolge esclusivamente all’interno delle camere di pernottamento (che rimangono sempre chiuse, escluse le due ore d’aria giornaliere), senza la possibilità che le persone ivi detenute possano usufruire di spazi e momenti di socialità, ovvero delle attività trattamentali proposte dagli operatori penitenziari».
Lo studio osserva che quanto fin qui descritto concorre ad acuire i disagi e le fragilità tipiche di molti giovani reclusi, che, per circa due mesi dal loro ingresso in Istituto, vengono inseriti in un ambiente che pare totalmente inidoneo alla salvaguardia della loro condizione psicofisica, molto spesso vulnerabile. Altro dato fondamentale è l’istruzione. Emerge che seppur l’ 87% dei giovani intervistati avrebbe il diritto di continuare il proprio percorso di studi durante la detenzione, la sua prosecuzione viene di fatto interrotta. Poi c’è il discorso, vitale, che è il mantenimento dell’affettività, del rapporto con i propri cari. Come osserva lo studio, la salvaguardia delle reti sociali esterne costituisce un fattore essenziale ai fini dell’efficace reinserimento sociale delle persone recluse che hanno la fortuna di possederle. Purtroppo, quanto emerso dalla somministrazione dei questionari evidenzia una netta rescissione dei “contatti con il mondo esterno” per i giovani intervistati, dal momento che il 54% di loro ha dichiarato di non svolgere alcun tipo di colloquio all’interno dell’Istituto. Molti di questi, inoltre, non riescono a contattare tout court i familiari o le cosiddette “terze persone” ( amici/ che, compagne/ i…), poiché spesso impossibilitati a reperire i loro numeri e/ o contratti telefonici, ovvero i loro documenti di identità. Risultato? Buona parte delle persone che costituiscono il campione intervistato si troverà nuovamente costretto all’interno degli stessi contesti socio- relazionali di quando ha fatto ingresso in Istituto. Non solo: tale rientro avverrà con il ( e sarà in parte causato dal) possesso delle medesime risorse e delle medesime competenze di quell’ingresso o, nella peggiore delle ipotesi, con competenze delinquenziali acquisite nel corso della detenzione. «In questa cornice, l’esito è allora scontato: presto o tardi, questi soggetti finiranno per fare ritorno in carcere e, di conseguenza, il nullo (o quasi) investimento fatto su di loro durante il precedente periodo detentivo sarà ex post giustificato», sottolinea amaramente lo studio.
A ciò, come se non bastasse, si aggiunge che al carcere di Torino, quasi il 45% dei giovani intervistati divide la cella con una persona di età superiore ai 30 anni. Eppure, l’ordinamento penitenziario stabilisce la separazione dei giovani al di sotto dei 25 anni dagli adulti. Lo studio realizzato dalla garante Gallo e la professoressa Blengino pone un problema che le scelte umane (e quindi politiche) devono risolvere, perché – come ben sottolineano – «è solo attraverso queste ultime, prese ed agite in forme collettive ( e quindi nuovamente politiche), che si può pensare di risolverle».