Per l’ordinamento penitenziario, il 41- bis ha un solo scopo: impedire i collegamenti tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Accade, però, che il nostro Paese, in alcuni casi, ne faccia un uso spropositato, tanto da ledere i diritti umani. La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha messo in luce i limiti di questo strumento. Giuseppe Morabito, noto come U Tiradrittu, considerato a suo tempo il numero uno della ’ ndrangheta, è da quasi vent’anni in isolamento severo, nonostante il progressivo deterioramento cognitivo diagnosticato.

La Cedu ha ritenuto che, in un contesto in cui il detenuto non rappresentava più un pericolo reale, l’estensione delle misure restrittive non fosse stata adeguatamente giustificata e, per questo, ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3, che vieta trattamenti inumani e degradanti.

Giuseppe Morabito, classe 1934, detenuto al 41-bis dal 2004 per il suo ruolo apicale nella ’ndrangheta, soffre di numerose patologie: ernia inguinale bilaterale, cardiopatia ipertensiva, infezioni urinarie ricorrenti, declino cognitivo progressivo, diagnosticato infine come demenza senile/ Alzheimer. Detenuto nel carcere milanese di Opera - Milano, ha più volte richiesto la revoca del 41- bis e la detenzione domiciliare per motivi di salute. Ma nulla da fare. Per i tribunali, Morabito è compatibile con il regime duro. A quel punto, tramite l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti, ha fatto ricorso alla Cedu, lamentando che il mantenimento del 41- bis, nonostante il suo peggioramento cognitivo, costituisca trattamento inumano e degradante, e che la sua detenzione in carcere, in generale, sia incompatibile con il suo stato di salute.

Il caso di Morabito evidenzia come il regime del 41- bis, concepito per isolare chi mantiene forti legami con il crimine organizzato, sia stato applicato in maniera uniforme, senza un’attenta valutazione delle specifiche condizioni di salute del detenuto.

Nel corso del procedimento, la Corte europea ha passato in rassegna un’enorme mole di documentazione medica: referti redatti dai medici dell’amministrazione penitenziaria, ma anche numerose perizie commissionate da consulenti privati. Queste ultime, in particolare, hanno tracciato un quadro clinico allarmante: i medici esterni parlano di una forma avanzata di demenza, di perdita di orientamento spazio- temporale, della difficoltà – se non impossibilità – di seguire le udienze, e di un decadimento cognitivo tale da escludere qualsiasi reale pericolosità sociale.

Le autorità italiane, invece, si sono affidate quasi esclusivamente alle valutazioni dei sanitari interni al carcere, secondo cui Giuseppe Morabito appariva ancora lucido, collaborativo e in grado di badare a sé stesso nel contesto della vita quotidiana. Sulla base di queste valutazioni, i tribunali hanno confermato, in modo regolare ogni due anni, il 41- bis, sostenendo che l’ex boss calabrese fosse ancora in grado di mantenere contatti con la criminalità organizzata.

Le frasi captate durante i colloqui con i familiari, alcune delle quali ritenute ambigue o allusive, sono state lette come segnali di un legame tutt’altro che reciso con il suo passato mafioso. Nonostante le perizie mediche indicassero una condizione di salute sempre più compromessa, i giudici hanno ritenuto che la pericolosità di Morabito non fosse venuta meno. Le richieste di attenuazione del regime detentivo o di detenzione domiciliare sono state puntualmente rigettate.

La Corte europea, votando sei contro uno, ha invece sottolineato l’obbligo di una valutazione individualizzata e dinamica delle condizioni di salute del detenuto, evidenziando come le restrizioni imposte abbiano contribuito a rendere la situazione di Morabito incompatibile con il rispetto della dignità umana. L’analisi della sentenza mostra che il problema non risiede nell’adozione del regime in sé, ma nella mancata capacità delle autorità italiane di dimostrare, in modo convincente e aggiornato, che le condizioni particolari del caso – in particolare il marcato deterioramento cognitivo – giustificassero il prolungamento delle misure restrittive.

In altre parole, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto che il sistema di rinnovo automatico del 41- bis non potesse ignorare i mutamenti nella situazione personale del detenuto, trasformando un provvedimento teso a prevenire il contatto con il crimine organizzato in una misura che, in questo caso, ha finito per ledere la dignità e il benessere umano. D’altronde, una persona che ha un evidente problema cognitivo, come può inviare ordini all’organizzazione mafiosa calabrese? Va contro la ratio del 41- bis stesso.

Il ragionamento della Corte trova un parallelo nel caso del boss Provenzano. Nel 2018 la Cedu aveva già condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 in relazione al provvedimento di proroga del 41- bis applicato a Bernardo Provenzano, emesso il 23 marzo 2016, pochi mesi prima della sua morte, il 13 luglio dello stesso anno. In entrambi i casi, la proroga automatica del regime di isolamento non ha tenuto conto delle condizioni di salute e della reale capacità del detenuto di rappresentare un pericolo per la società. Se da un lato la situazione di Provenzano aveva evidenziato una simile mancanza di riesame individuale, dall’altro il caso di Morabito ha sottolineato come il sistema, pur avendo ragioni preventive, debba essere sempre accompagnato da una valutazione puntuale dell’impatto delle restrizioni sulla salute fisica e mentale del detenuto.