PHOTO
https://www.youtube.com/embed/tbBdTNnJ7kw Se è vero che il carcere è il luogo dell’indifferenza sociale, a Roma occupa uno spazio ancora più ingombrante. Convertito all’uso attuale alla fine del diciannovesimo secolo, il complesso architettonico di Regina Coeli si trova proprio nel cuore della capitale, dove un tempo la facciata di un convento rifletteva la potenza delle grandi famiglie romane. Oggi al segno della storia si sostituisce il disagio sociale: la casa circondariale di Regina Coeli è un «manicomio, un vero e proprio porto di mare», ci spiega Rita Bernardini, militante Radicale e presidente di “Nessuno Tocchi Caino”. Quello che conosciamo attraverso i suoi occhi è prima di tutto un carcere sovraffollato, senza spazi di socialità e zone di passeggio strettissime. Manca anche un’area verde, dove i detenuti possano incontrare i figli o giocare una partita a calcio. Con l’allentarsi dell’emergenza sanitaria è tornato ad aumentare il numero dei reati, con l’ingresso di altri 200 detenuti nella struttura: pur avendo una capienza di 600 persone, ne contiene ad oggi 900. «La sezione peggiore - spiega Bernardini - è la settima: quella dei nuovi giunti. Ci sono celle piccolissime, con due o tre con letti a castello, dove i nuovi arrivati restano chiusi anche per 23 ore al giorno, con una sola ora d’aria che si riduce a 40 minuti per gli spostamenti. In quel luogo terribile i detenuti restano anche per un anno: proprio nella fase iniziale della detenzione, quella in cui la disperazione porta più spesso al suicidio». Altre sezioni del palazzo mantengono le vecchie reti che permettono di guardare nei piani superiori: è lì che all’arrivo di Marco Pannella «veniva giù il carcere», racconta ancora Bernardini. «Vero e proprio idolo dei detenuti», quando Pannella metteva piede a Regina Coeli bastava uno sguardo per recuperare l’umanità e l’intensità delle relazioni affettive sottratte così spesso ai detenuti. Il suo ricordo indelebile lo ritroviamo anche nelle parole di Marco Costantini, scrittore ed ex detenuto, ristretto per 16 anni a Rebibbia dall’età di 42 anni. Dopo aver avuto accesso alle misure alternative, da tre anni e mezzo sconta la sua pena fuori coniugando l’attività di scrittore all’impegno con il Partito Radicale. Lo incontriamo alla birreria “Vale la pena”, il primo locale romano ad aver sposato il progetto di “Economia carceraria”, una piattaforma nata dall’impegno comune di alcune cooperative che hanno scelto di investire in attività produttive per i detenuti. Proprio il lavoro, infatti, rappresenta per chi è recluso l’unica speranza di un futuro migliore. «Il carcere mi ha tolto solo la libertà fisica, ma con la testa sono sempre stato altrove», racconta Costantini, che si prepara a dare alle stampe il suo ultimo lavoro. Quando era ristretto a Rebibbia è stato responsabile per cinque anni del call center Bambin Gesù, trasferito da un istituto all’altro non ha mai smesso di lavorare e tenersi impegnato: «per finire il mio primo libro ci ho messo 6 anni: scrivevo tutto a mano, poi ricopiavo al computer e caricavo su un dischetto che passava alla verifica. Una volta ottenuta l’autorizzazione potevo inviare il manoscritto alla casa editrice». Dei suoi giorni dentro Costantini ricorda il tempo che scorreva lento e «due rumori che resteranno per sempre nella mia testa: la chiusura delle sbarre, con la chiave che girava a tutte le ore, e l’apertura dello spioncino di notte con la lampadina. Scrivere e studiare mi teneva in vita». «Tutti sanno che il carcere è fallimentare. Chi entra poco delinquente diventa molto delinquente», riprende Bernardini sul tema del trattamento in carcere. «Bisogna rafforzare l’intero settore del reinserimento sociale prosegue la presidente di “Nessuno Tocchi Caino” - su questo siamo all’anno zero. Nell’ordinamento penitenziario è previsto tutto, ma nella realtà non succede niente. L’ufficio per l’esecuzione penale esterna, ad esempio, che si occupa del detenuto quando accede alle misure alternative e deve accompagnarlo al reinserimento nella comunità ha talmente poco personale che a malapena riesce a seguire qualche caso. Abbiamo poco più di mille assistenti sociali in tutta italia. Gli educatori sono pochissimi anche se sono fondamentali, perché attraverso le relazioni che costruiscono, danno modo di accedere alle pene alternative». «La nostra Costituzione - conclude Bernardini - dice che le pene non possono essere contrarie al senso di umanità. Ma bisogna anche ricordare che il carcere non è l’unica pena: dovrebbe essere l’estremo rimedio». *servizio video a cura di Lorem Ipsum