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È un applauso che sembra non finire più: a fine cerimonia, Maria Masi raccoglie l’omaggio di una lunga ovazione. Intensa come quella che l’auditorium del Maxxi di Roma, dove si inaugura l’anno giudiziario del Cnf, ha riservato poco prima al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Al Capo dello Stato l’avvocatura si rivolge come a un garante che resta baluardo di diritti e democrazia, alla presidente dell’istituzione forense si tributa il riconoscimento per la forza con cui ha retto il timone negli anni del proprio mandato, in mezzo a difficoltà mai viste.
È l’avvocatura provata dal triennio della crisi, della pandemia, delle “leggi speciali” sul processo, che applaude Masi per aver tenuto la rotta senza perdere l’equilibrio, e anche per aver saputo guardare negli occhi una realtà spesso sgradevole, ingrata con la professione. Una classe forense sospesa fra ambizioni, consapevolezza del ruolo ma anche delle battute d’arresto: ecco il quadro evocato dalla cerimonia inaugurale. Non è un bilancio sempre in attivo. Mattarella ascolta in silenzio, ma, dice Masi, «ci onora e conforta il nostro impegno, sostiene e rafforza il senso della nostra funzione».
È difficile, in una giornata del genere, distinguere le luci dai chiaroscuri. La presidente del Consiglio nazionale forense non dipinge il quadro in rosa, anzi è forse persino più aspra di quanto non fosse stata nel discorso alla cerimonia in Cassazione, lo scorso 26 gennaio. In particolare nei confronti del governo, per il mancato ascolto rispetto delle obiezioni che, sul nuovo processo civile e penale, Foro e magistratura avevano rivolto in tempi non sospetti. Ma Masi non risparmia il proprio rammarico nei confronti della stessa controparte togata: «Sarebbe stato simbolicamente importante se avessimo comunicato in maniera forte e chiara il nostro dissenso». Invece «ci si è allarmati per il parere dell’avvocatura in seno ai Consigli giudiziari anziché per il rischio di un fallimento delle riforme». E per il futuro, l’appello della presidente Cnf è battersi insieme, magistrati e avvocati, affinché si eviti che il difensore venga sempre più spesso snaturato, nella «opinione pubblica», come «complice del criminale o peggio difensore non della persona, bensì del crimine». Così come il magistrato rischia di essere inghiottito da un sistema che non tiene più il cittadino «al centro della Costituzione».
A intervenire sul palco, dopo la relazione di Masi, sono la neopresidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano, il vicepresidente del Cnf Fabio Pinelli e il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. I primi due valorizzano, ciascuno dal proprio versante, il «coprotagonisno dell’avvocatura nella giurisdizione» il «ruolo di garante nella tutela dei diritti», per usare le parole di Cassano. Pinelli riconosce un’analogia, una parità non solo fra gli attori del processo, ma anche tra i loro organi esponenziali, il Cnf e il Csm, fra i quali è naturale una «virtuosa complementarietà». La prima donna nominata al vertice della Suprema corte ha il coraggio di distinguersi da gran parte della magistratura nell’indicare come «essenziale» il ruolo attribuito al Foro all’interno dei Consigli giudiziari – nei quali ora gli avvocati potranno incidere anche sulle carriere dei giudici – anziché respingerlo come una fastidiosa intrusione. Il vicepresidente del Csm chiede a propria volta di mettere al bando l’«antagonismo corporativo» e la «diffidenza» che, fra avvocati e magistrati, prevalgono in alcune «realtà giudiziarie del Paese».
È Sisto ad assumere le vesti del contraltare. Riconosce la «crisi del rapporto di fiducia fra giustizia e cittadini», ma considera a volte improntate a una qualche «severità» le valutazioni di Masi sul rapporto fra governo e avvocatura nell’esame delle riforme. Il viceministro della Giustizia mostra più ottimismo, ricorda «lo stato di necessità economica» che ha ispirato la nuova disciplina del processo civile e penale ma anche la possibilità di intervenire con «decreti correttivi». Sul finire arriva a una battuta, «camminare tutti insieme appassionatamente», nel senso che «le istituzioni hanno senso se marciano unite». E nel farlo, per Pinelli, dovranno non solo ritrovare «efficienza nella giustizia» ma innanzitutto «autorevolezza».
È come se tutti – avvocatura, magistratura, autogoverno dei giudici, esecutivo – fossero consapevoli di un percorso rimasto in sospeso. A mancare è l’obiettivo che Masi disegna alla fine, «l’utopia di una comunità della giurisdizione», in cui avvocati e magistrati sappiano farsi forza a vicenda. E Cassano fa sintesi fra le parole di Masi e di Pinelli con l’auspicio di una «coesione culturale» fra giudici e difensori, in grado di restituire alla giustizia l’autorevolezza affievolita negli ultimi anni. Parlare a una sola voce: è la sfida che magistrati e avvocati ancora non sono riusciti a vincere, ma che negli auspici di Masi, come degli altri oratori, è il vero valore aggiunto a cui la giustizia dovrebbe aspirare. «Legittimarsi reciprocamente significa riconoscere l’imprescindibilità dell’altro, condividere l’appartenenza di tutti a un’unica comunità», per dirla ancora con Pinelli.
Dopo anni di sofferenze legate alla crisi della magistratura, al cosiddetto caso Palamara, dopo che non sempre nel rapporto coi media le toghe hanno assicurato il rigore deontologico sollecitato da Cassano, tanto da alimentare anziché spegnere l’incendio del processo mediatico, una consapevole unità e difesa reciproca è il vero cambiamento che Masi indica per il futuro. E che, se realizzato, può restituire anche alla politica la bussola perduta della giustizia.