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Domani, davanti alla Corte di Diyarbakir, capoluogo del Kurdistan turco, si concluderà il processo contro due dei poliziotti che spararono e uccisero l’avvocato Tahir Elgi.
Era il presidente del Consiglio dell’Ordine di Diyarbakir, noto difensore dei diritti umani, che aveva vinto più di un ricorso davanti alla Corte EDU contro la Turchia, e proprio in quei giorni aveva pubblicato un libro che denunciava l’assedio e l’attacco armato alla cittadina di Cizre da parte del governo turco.
Era la fine di novembre del 2015 ed Elgi stava tenendo un discorso davanti all’antico minareto “delle quattro colonne”, cosiddetto proprio perché edificato su quattro tozze colonne, nel quale discorso sosteneva quanto fossero importanti i monumenti che richiamavano l’identità curda e come un attacco ad essi (con chiaro riferimento a ciò che era accaduto a Cizre) fosse un attacco alle aspirazioni di autonomia e indipendenza del popolo curdo. Il discorso si teneva sotto il minareto che chiudeva una strada piuttosto stretta nel cuore di Sur, il quartiere storico della città, racchiuso dalla imponente cinta muraria di basalto nero risalente a più di mille anni fa.
Elgi aveva dietro di se’ altri colleghi ed attivisti e davanti aveva alcuni astanti addossati alle case e un manipolo di poliziotti in abiti civili, ma con telecamere e pistola alla cintola. All’improvviso scendono giù correndo per la stretta via due giovani, immediatamente individuati come due terroristi che a poche centinaia di metri avevano ucciso un poliziotto. I poliziotti che erano sulla via aprono il fuoco (circa 40 colpi in 16 secondi), ma mancano i due giovani, che pure stavano passando proprio di fronte a loro, ma centrano in pieno Elgi, che era ben più distante, con un colpo alla testa.
Le indagini si trascinano per anni, anzi non cominciano mai veramente. Si parte male: il PM titolare non intende fare il sopralluogo sulla scena del crimine. Ci va solo il giorno dopo su insistenza degli avvocati dell’Ordine e vengono individuati più di 83 reperti e tracce sul terreno, ma dopo una quarantina lascia il luogo perché troppo insicuro. Si esaminano le riprese delle telecamere, ma a quelle della polizia mancano proprio i secondi dello sparo. Dopo più nulla, nonostante che per mesi e anni gli avvocati ogni venerdì si radunino innanzi al Tribunale protestando per l’inerzia degli inquirenti.
Sono ancora i colleghi a trovare una ripresa completa di una telecamera installata su un negozio. Poi, dopo il tentato golpe del luglio 2016, il PM titolare viene rimosso e si tarda a nominarne un altro, che peraltro dura poco e altri ancora si avvicendano. I colleghi accolgono quanti più elementi significativi possono, e soprattutto recapitano tutti i video ad una agenzia specializzata di Londra che, analizzando immagini e suoni degli spari, ricostruisce esattamente l’accaduto e individua il poliziotto che con ogni probabilità sparò il colpo fatale. Ma la procura tarda a individuare i nominativi dei responsabili e formulare l’accusa.
Su insistenza della vedova (oggi parlamentare) e dei colleghi lo fa due anni fa rinviando a giudizio due poliziotti, ed uno dei due terroristi che correvano lungo la strada. Il processo si trascina per diverse udienze, in cui vengono rigettate tutte le richieste di prove sia testimoniali che ricostruttive proposte dalla difesa di parte civile (la vedova e il Consiglio dell’Ordine), compresa la perizia londinese. I colleghi di Diyarbakir non sono e non possono essere molto ottimisti sull’esito del processo e già stanno pensando ai gradi superiori ed al ricorso alla Corte EDU. Se non c’è un giudice a Diyarbakir dovrà ben esserci a Strasburgo. La uccisione di Elgi segnò un punto di svolta nella strategia governativa contro i curdi. Il governo si era ormai ritirato dai colloqui bilaterali in corso sulla autonomia del popolo curdo e di lì a pochi giorni avrebbe attaccato militarmente Diyarbakir e il suo centro di Sur nonché decine di altre cittadine vicine, portando distruzione e morte. L’uccisione di un personaggio così popolare come Elgi aveva un significato preciso.