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Tempo fa Il Dubbio si era occupato del caso di un mio cliente, Carmine Multari, da me assistito per la fase di legittimità davanti alla Corte di Cassazione. Era stato pubblicato questo articolo: “Carcere Opera, ha un tumore, perde sangue e teme minacce dagli ’ ndranghetisti”. La sentenza di primo grado, resa dal Tribunale di Vicenza, ha condannato ad oltre 14 anni di reclusione il Multari, cui erano contestate per una serie di estorsioni, aggravate dal c. d. metodo mafioso (metodo che tra l’altro avrebbe attuato con una particolare condotta, ovvero parlare col suo spiccato accento calabrese), alcune di esse commesse nell’ottobre del 2004.
Nel riconoscere la contestata aggravante, si legge nella sentenza: “Sul punto, non può essere trascurata la circostanza che l’imputato abbia uno spiccato accento calabrese - come riferito dai testi escussi e come apprezzato direttamente dal Tribunale nel corso delle udienze dibattimentali — che rende immediatamente evidente la sua provenienza geografica e che, quindi, connota e accresce l’attitudine intimidatrice delle sue parole: infatti, alla luce delle modalità peculiari assunte dalle sue azioni illecite, la chiara identificazione dell’imputato come un soggetto originario della zona in cui è radicata la ‘ ndrangheta può certamente reputarsi idonea a ingenerare nelle persone offese appartenenti ad un contesto regionale diverso da quello calabrese il sospetto di trovarsi davanti ad una persona in qualche modo vicina a tale organizzazione di tipo mafioso”.
Multari, tuttavia, si è sempre dichiarato innocente, totalmente estraneo ai fatti. E tra l’altro, essendo cresciuto in Veneto, il suo accento non può affatto dirsi spiccatamente calabrese.
La Corte di Appello di Venezia ha confermato però la sentenza del Giudice di prime cure e la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione. Si è ancora in attesa del deposito delle motivazione. Successivamente alla notifica dell’ordine di esecuzione, è emerso che il Multari non poteva aver commesso alcuni dei fatti lui contestati, ovvero quelli asseritamente commessi nel 2004. L’imputato era, infatti, nel 2004 detenuto per altra causa. Il certificato di detenzione parla chiaro: dal 2003 al 2005 è stato detenuto ininterrottamente per altra causa e non può, con assoluta certezza, aver commesso quei fatti. Si tratta della ennesima vicenda di errore giudiziario del quale è stata immediatamente notiziata la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Vicenza, competente per l’esecuzione.
Appresa la notizia della recente condanna di un Collega di Roma, considerato un vero principe del foro, un galantuomo, e per molti un vero e proprio Maestro, al quale va tutta la mia solidarietà, sono rimasto basito per l’ennesimo episodio di attacco agli avvocati, in un clima ormai irrespirabile nel quale il sospetto nei confronti della nostra categoria si concretizza in un vero e proprio attacco alla democrazia. E il ricordo è andato subito al giorno in cui, anche io, sono stato iscritto nel registro degli indagati insieme al mio cliente, per un fatto commesso durante l’esercizio della professione, dalla Procura di Latina. La mia posizione è stata archiviata dopo otto mesi di “indagini”; otto mesi nei quali ho vissuto un incubo, pur essendo certo della mia totale estraneità alle contestazioni.
Contestazioni che sono state vissute da me come un vero e proprio atto di “ritorsione”: per ragioni di opportunità sono stato costretto a rinunciare al mandato conferitomi. E il mio cliente ha riportato una condanna ad una pena di un anno e otto mesi di reclusione per resistenza a P. U.
Questi sono, a grandi linee, i fatti. Domenica 23 maggio 2021 venivo svegliato da un mio cliente alle 8.18, dal quale ricevevo tre chiamate su whatsapp. Non facevo in tempo a rispondere, ma alle 8.21 lo richiamavo. Mi rispondeva personalmente, in preda al panico, dicendomi che in casa sua erano entrati - non si capiva bene chi - almeno una decina di persone. Vista la situazione concitata, le urla che provenivano e le richieste di aiuto, decidevo di registrare la chiamata whatsapp, che - è bene ribadire - aveva ad oggetto una conversazione tra me e il mio cliente.
Ad un certo punto, la telefonata veniva interrotta, e non ricevendo più notizie, sapendo che la sua ultima residenza era stata nel Comune di Amaseno (Fr), contattavo la PS e i Carabinieri del luogo, fino a chiamare anche quelli di Latina. Spiegavo l'accaduto, mostrando preoccupazione perché non avevo ben capito se era stato tratto in arresto. Tutti i Carabinieri con cui ho interloquito mi hanno detto che non erano a conoscenza di nessun arresto nei suoi confronti. In tarda mattinata mi arriva la telefonata da parte della Questura di Cisterna di Latina, la quale mi avvisa che il mio cliente era stato arrestato per resistenza a P. U., nell'occasione di un controllo presso la sua abitazione a seguito di una chiamata della compagna del mio assistito, per asseriti maltrattamenti in famiglia. Il giorno seguente, il 24 maggio (giorno tra l’altro del mio compleanno) mi recavo a Latina, per celebrare l’udienza di convalida davanti al Tribunale in composizione monocratica, Giudice dott. ssa Bernabei.
Nel corso dell’interrogatorio Il mio assistito negava di aver opposto resistenza, ed al contrario affermava di essere stato in preda ad attacchi di panico, di essere stato aggredito da più persone e soprattutto schiaffeggiato in particolare da un operante che si era fatto refertare per delle lesioni. Nel porre le domande ad uno degli operanti che aveva effettuato l’arresto, chiedevo a questi se gli risultava che il mio assistito avesse chiamato il suo difensore. L’operante, davanti al Giudice, in effetti ricordava di aver assistito a quella chiamata ( poi interrotta).
Il Giudice da una parte convalidava l'arresto ed emetteva ordinanza di obbligo di presentazione alla Pg e rinviava al 5 luglio 2021; dall’altra, però, volendo ben comprendere i fatti, accoglieva la richiesta di rito condizionato all’ascolto e alla trascrizione della telefonata intercorsa tre me e il mio assistito, conferendo all’uopo incarico peritale al fonico trascrittore. Con ciò, il giudice riteneva necessaria ai fini del decidere l’acquisizione della prova; ma soprattutto la riteneva lecita, in quanto avvenuta registrazione di una conversazione tra presenti. Il giorno successivo il mio cliente si faceva nuovamente refertare all’Ospedale di Aprilia.
Cosa è accaduto subito dopo? Essendo emerso nella convalida di arresto che avevo registrato - legittimamente - la telefonata tra me e il mio cliente, sono stato immediatamente indagato per i reati di cui agli artt. 617 e 617 bis c. p. Tutto ciò nonostante un Giudice avesse accolto la mia istanza di giudizio abbreviato condizionato al deposito della registrazione della telefonata. È una triste storia che non ho mai reso pubblica, di cui ne sono a conoscenza solo i miei difensori di fiducia ed alcuni colleghi della Cpr.